Il messaggio che arriva da Taranto, oggi, non parla di atleti o di stadi, ma di potere, di rapporti internazionali e di scarsa, quasi assente, coesione istituzionale
Taranto, i Giochi del Mediterraneo e il gioco più duro, quello del potere. C’è qualcosa di profondamente paradossale nel rischio che i Giochi del Mediterraneo di Taranto 2026 possano saltare per una disputa, complessiva, da 10 milioni di euro su un investimento complessivo di oltre 300 milioni. È il 3 % del totale, ma sta diventando il detonatore, rumoroso, di una crisi che non è solo contabile: è politica, istituzionale e, in parte, simbolica.
A scontrarsi, oggi, non sono solo il Comitato Internazionale dei Giochi del Mediterraneo (CIJM) e il Comitato organizzatore italiano. Dietro la controversia sulla ripartizione di alcune spese, broadcasting, logistica, servizi tecnici, si fronteggiano due visioni del potere e della sovranità. Da un lato, l’organismo internazionale che rivendica la sua autorità e la necessità di garantire “standard unici”, per tutti i Paesi partecipanti, con fornitori accreditati e regole proprie. Dall’altro, lo Stato italiano che ricorda, giustamente, che nessun evento, per quanto sportivo e simbolico, può essere sottratto alle leggi nazionali sugli appalti, sulla trasparenza e sulla legalità. In mezzo, Taranto e la Puglia, che rischiano di vedere svanire un’occasione storica di rilancio e di immagine.
Dietro i contratti e i numeri, però, si percepisce un’altra partita. Una partita politica. I 10 milioni non sono solo una cifra: sono il controllo del “cuore tecnico” dei Giochi, le commesse più visibili, la cabina di regia delle operazioni. Chi gestisce quei contratti gestisce la scena, i tempi, la reputazione.
Per il CIJM, significa mantenere il primato e non cedere al principio che uno Stato possa riscrivere le regole. Per l’Italia, significa riaffermare la propria autonomia, evitare il rischio di decisioni opache e, diciamolo, difendere anche spazi economici e industriali interni.
Il vero problema è che questa tensione si è lasciata crescere/lievitare a dismisura. Le istituzioni nazionali, regionali e locali avrebbero dovuto blindare, da tempo, un accordo quadro chiaro e vincolante, capace di prevenire frizioni di qualsiasi tipo. Ora, invece, con meno di un anno all’apertura, si è in pieno braccio di ferro mediatico: lettere dure da Atene, reazioni indignate da Roma, e la sensazione più diffusa che la burocrazia abbia prevalso sulla visione.
È davvero pensabile che una manifestazione internazionale venga cancellata per un contenzioso tecnico? Sul piano formale sì, sul piano politico no. Entrambe le parti hanno troppo da perdere: il CIJM in termini di credibilità, l’Italia in termini di immagine e sviluppo. È dunque probabile/auspicabile che si arriverà a un compromesso dell’ultima ora, ma con cicatrici evidenti e un danno già fatto: quello di aver mostrato al mondo intero, ancora una volta, l’incapacità di parlare con voce univoca.
La verità è che i Giochi del Mediterraneo non sono solo un evento sportivo: sono una vetrina di governance. E il messaggio che arriva da Taranto, oggi, non parla di atleti o di stadi, ma di potere, di rapporti internazionali e di scarsa, quasi assente, coesione istituzionale.
Il rischio non è solo che i Giochi saltino, ma che resti l’impressione, più grave e più duratura, di un Paese che non riesce a fare squadra neppure quando il mondo lo guarda.