Taranto è città schiava dell’ordinario, impigliata nella rete dell’ovvio. Non osa, non avanza. Manca una visione. Manca quella che, Edgar Morin, chiama “la comunità di progetto”. Serve che l’Amministrazione comunale faccia di più. Molto di più
Manca un’idea, una visione. Manca l’insolenza del talento. Manca quella che Edgar Morin chiama “la comunità di progetto”. Taranto è città di poche pretese. Schiava di una strana dittatura: quella dell’ordinario. Dell’estremismo dei senza mestiere. Della ciarla dei perdigiorno. Avanza, di converso, una stereotipata prassi amministrativa che rende caliginoso l’agire politico. Incerto. Opacizzato. Come certe ombre mediterranee della controra, fuoriuscite dal genio fotografico di Ferdinando Scianna. La vicenda dell’Ilva, i documenti che la giunta municipale sottoscrive insieme ad un sindacato metalmeccanico in evidente stato confusionale, dimostrano questa afasia di fondo. La politica industriale è prerogativa del governo nazionale, no delle autonomie locali. La nazionalizzazione dello stabilimento, nei piani del ministro Urso, ridurrà ai minimi termini la forza lavoro in quella fabbrica. Qualcosa per la quale non andare particolarmente fieri, a cominciare proprio di chi quei lavoratori dovrebbe rappresentarli.
L’aver votato, nel Consiglio comunale dell’altro ieri, il ricorso al Tar per l’autorizzazione alla costruzione del dissalatore sul fiume Tara, è un’altra di quelle misure che si stenta a capire. Arrivata con notevole ritardo in Aula. Che senso ha ricorrere ad un Tribunale amministrativo quando, chi dovrà realizzare l’opera, è in possesso di tutti i pareri autorizzativi e il cantiere sta già lavorando da alcune settimane? Non ci preoccupa il Cinque Stelle che è in te, ma il Cinque Stelle che alberga in ognuno di noi. Il Cinque Stelle che fa votare all’unanimità una mozione tecnicamente sbagliata, senza volerci addentrare per un solo istante nel merito della vicenda.
Come non capire che il Porto così com’è messo, da più importante infrastruttura esistente sul territorio, l’unica in grado di toglierci di dosso la patina di un esasperato provincialismo, il Porto che rappresenta il più grande golfo d’Italia e del Mediterraneo, è nient’altro ormai che una palla al piede. L’occasione mancata perché si tornasse ad essere grandi (ed influenti). Senza traffici, con un molo polisettoriale assegnato per 49 anni ad un operatore che non genera economia, lo scalo jonico è un ex bene pubblico. Nei fatti privatizzato; nella prassi, agonizzante. Dei circa 500 milioni di euro che arriveranno a Taranto, quanti saremo realmente in grado di spendere? E quanti, invece, dovremo mandare indietro perché impossibilitati nell’avere progetti predisposti per tempo e scritti bene?
Il profilo riformista di un’Amministrazione, la sua attitudine a governare, a dotare di un progetto la comunità rappresentata, passa da queste cose. Da una metodologia di lavoro, dalla conoscenza che precede il deliberare. Più che dall’ascolto di un Contrario qualsiasi in Consiglio comunale. Più dell’astensione dei vari Di Gregorio e Galeandro sul ricorso all’AIA dell’Ilva. Più dei silenzi di convenienza dell’assessore Gravame. Più dei manifesti formato elefante della candidata Angolano. La soluzione è nel riformismo rivoluzionario. In ciò che Riccardo Lombardi chiamava “la libertà degli ultimi che non si arresero ai primi”.


