di Rosa Elenia Stravato
Nel gremito Teatro Politeama “G. Verdi”, lo scrittore dei cinque milioni di copie presenta La bugia dell’orchidea: un viaggio tra verità, menzogna e inquietudini contemporanee che trasforma la letteratura in riflessione collettiva
Nel cuore della Valle d’Itria, là dove le pietre bianche risplendono sotto il sole invernale e il richiamo della memoria si fonde con le inquietudini del presente, si è consumato un appuntamento che ha assunto i tratti di un rito collettivo. Donato Carrisi — lo scrittore da cinque milioni di copie, l’autore di thriller italiani più letto al mondo — è approdato nella sua Martina Franca domenica 21 dicembre 2025, alle ore 10.00, presso il Teatro Politeama “G. Verdi”, per presentare la sua ultima fatica narrativa: La bugia dell’orchidea.
L’evento, promosso dalla casa editrice Longanesi in sinergia con il Presidio del Libro di Martina Franca e la libreria Mondadori, è risultato essere molto più di una consueta tappa letteraria. Il teatro traboccante di spettatori. Di un pubblico eterogeneo e assetato di parole, appariva come una conchiglia palpitante d’attesa. Un luogo simbolico per l’autore che, negli anni novanta, ha debuttato su quella scena come autore ed interprete. Un teatro che conosce così bene da non avere segreti. La folla si appresta a riempire ogni singolo posto. È una festa di anime.
Il sipario, già spalancato, svelava una scena essenziale: una sedia, un leggio e, a dominare il fondoscena, la copertina del nuovo thriller che troneggiava sul maxi schermo come un monito, una promessa, forse persino una minaccia. D’improvviso, lo sciame del vociare si attenua fino a dissolversi; le luci si abbassano, come se la realtà stessa accettasse di farsi da parte. Ed ecco che prende forma qualcosa di unico, quasi un’apparizione: Carrisi entra in scena. Ma ciò che accade non può essere definito una semplice presentazione. No. Qui l’autore si muove come un indagatore dell’animo umano, un demiurgo capace di modellare suggestioni e smascherare illusioni.
Il finto romanzo di Carrisi dicono i più. Certamente, un testo molto discusso che sta nutrendo un corposo dibattito: dove si nasconde la verità? Soprattutto, questa verità è esistente?
L’autore presenta immediatamente la trama essenziale dell’opera: un’alba estiva che si leva su un orizzonte immobile; l’aria ferma della campagna ed un casale vermiglio. Isolato nel cuore del nulla. Sul vialetto di ghiaia si distinguono piccole biciclette abbandonate, giocattoli dimenticati, panni sospinti da una brezza lieve, galline che razzolano e conigli immobili nei loro recinti. Il silenzio. Un silenzio innaturale, quasi siderale, che non pare attribuibile alla dimensione terrena. Un silenzio che, all’improvviso, si lacera per lasciare spazio a un urlo disperato. È il setting di una strage familiare: in quel casolare, brutalmente giacciono i corpi di una donna e tre bambini. Sulle scale, sporco di sangue, l’unico sopravvissuto. L’unico che si dichiara colpevole. Quale enigma si cela entro le mura di quel casale rosso, in quella soffocante notte d’agosto? Ma Carrisi, da abile demiurgo, non è sul palco per dare risposte o fare spoiler. No, affatto. Carrisi è lì per far sgranare lo sguardo; il suo eloquio è una lama sottile che attraversa la superficie della quotidianità, mostrando come la verità — quella parola che pronunciamo con troppa leggerezza — sia spesso soltanto una fragile convenzione. “Che cos’è la verità?”. Questa domanda, semplice nella forma ma perturbante nella sostanza, riecheggia nella platea come un grido muto.
Il maestro delle ombre, dunque, insinua il dubbio che la verità non sia un monolite, bensì un prisma che rifrange mille prospettive. È un punto di vista? È una costruzione che inseguiamo, o un ginepraio di certezze presunte, coltivate perché la maggioranza si adagia su convinzioni flebili, accettate senza contestarle? Forse, suggerisce lo scrittore, siamo noi stessi gli artefici della menzogna che ci avvolge, e la verità non è altro che un labirinto in cui scegliamo — o siamo indotti — a smarrirci. Così, il Teatro Politeama non è stato soltanto luogo di incontro tra autore e lettori, ma soglia tra conoscenza e inganno, dove La bugia dell’orchidea ha mostrato la sua essenza: non una mera storia da leggere, ma una sfida intellettuale, un invito a dubitare, a interrogare, a non arretrare di fronte al mistero. Tra ironia, prompt e pungenti sottolineature; l’autore punzecchia il pubblico. Le rende scomode, quelle sedute: una platea che d’istinto si spoglia del disincanto che popola le routine. È una sfida intellettuale che svela quanto la nostra società sta scegliendo di mettersi a riposo. Una società che sceglie di fare domande a macchine piuttosto che adoperarsi per analizzare, destrutturare, vivere il dubbio. Una società che, a guardar bene, cerca risposte semplici a domande – in fondo- abbastanza banali. Una società, diremmo, che si accontenta. Il gioco del buon demiurgo si pone come monito ai propri lettori: tra due immagini quale sarà quella reale e quale quella, allora, costruita dalla macchina? E il pubblico, uscendo ha portato con sé non solo il profumo della carta stampata, ma anche un germe di inquietudine nuova. Il sospetto che la verità sia un territorio da esplorare, non da accettare con comoda inerzia.
Donato Carrisi torna a imprimere il proprio sigillo nell’universo del thriller psicologico, confermandosi maestro nell’indagare quell’oscuro territorio in cui l’animo umano si fa labirinto. Non un semplice romanzo, ma un’esperienza narrativa che si insinua sottopelle, obbligando il lettore a una riflessione che va oltre la pagina stampata: che cos’è la verità? E, soprattutto, di chi possiamo fidarci quando la realtà si frantuma in mille prospettive?


