Ci vorrebbe Ennio Flaiano per fotografare, con uno dei suoi aforismi, la situazione dell’Ilva. Nella citta simbolo di una modernità a digiuno di classi dirigenti, il Governo sembra voler gettare la spugna. L’unico epilogo possibile quando non ti doti di una politica industriale degna di questo nome
La situazione è grave ma non è seria. Sull’Ilva, Ennio Flaiano se la sarebbe cavata con un aforisma dei suoi. Definendo la giusta distanza tra palco e realtà. Tra immaginazione e ciò che si suole definire prassi fattuale. E ammettendo, in ultima istanza, l’assenza di una politica industriale nel nostro Paese: da almeno trent’anni a questa parte. Lo stabilimento siderurgico di Taranto è un ferro vecchio con l’ambizione di produrre acciaio green. Una sorta di colossale – e farsesca – contraddizione in termini. L’esemplificazione ruffiana della presa per i fondelli. Più Polli Aia che Aia (Autorizzazione integrata ambientale) alla fine. Più dis-Accordi di Programma che avanzata concertazione tra le parti coinvolte nel processo decisionale. La modestia del ministro Urso, nel trattare il dossier Ilva, è imbarazzante tanto quanto il suo ciondolante italiano.
L’assenza prolungata, attorno alla questione, del vicepresidente esecutivo della Commissione Europea (Raffaele Fitto) oltrepassa la linea di faglia dell’opportunità politica. Stesso ragionamento può replicarsi per il presidente della Commissione Ambiente a Bruxelles, Antonio Decaro. Della serie: il silenzio è d’oro in talune circostanze. Specie quando non si sa che pesci prendere. E gli appuntamenti elettorali sono ravvicinati nel tempo. L’incontro fissato per questa mattina a Bari da Emiliano, con enti locali e sindacati, ratificherà la divisione verticale tra esecutivo nazionale e i livelli intermedi di governo territoriale. Sarebbe stato più giusto tenerlo a Taranto, che a convocarlo fosse stato il sindaco Bitetti, neorappresentante della città-simbolo di una modernità a digiuno di classi dirigenti.
Un’azienda che somma perdite pari a 50 milioni di euro al mese, pagate con soldi dei contribuenti, sarebbe stata dichiarata fallita già da un pezzo. La nazionalizzazione è nei fatti, altro che chiederla ogni due per tre. Alla stregua di quanti si ostinano nell’abbaiare alla luna. E’ la nemesi della Storia: la fabbrica potrebbe essere chiusa per errati calcoli economici, per la miope ricerca di un piano industriale che non esiste. Per il Baku (Steel Company) da seta. E non per morte e malattie dispensate in quasi mezzo secolo di attività. L’ambientalismo nostrano se ne faccia una ragione: la situazione è grave, ma non è seria. Quanto ci manca Ennio Flaiano.