Taranto e la mediocrità, a tutti i livelli, tatuata sulla sua pelle. Melucci è un errore della Storia che ben si coniuga con un contesto desolante. Con un’imprenditoria latitante, una borghesia inesistente, un sistema dell’informazione che sopravvive a se stesso. Quel che è destinato a te, possiede il tuo stesso passo
Dal Mediterraneo al Sudamerica senza alcuna tappa intermedia. Tirando dritto senza mai voltarsi. Tutto d’un fiato. Il giro del mondo in ottanta giorni, per Taranto, può dirsi compiuto. Realizzato. Così come la sua definiva involuzione politico-amministrativa. Il suo scivolamento da un Sud problematico ad un Sud negato. La speranza di una rinascita culturale ha ceduto il posto alla mediocrità ossequiante. E’ una deriva totale, ruffiana, quella alla quale si assiste con fare rassegnato. Una caduta prodotta per inciampo più che per spinte esogene. In medicina si utilizzerebbe l’espressione “prassi iatrogena” per descrivere il caso tarantino, la sua peculiarità delirante. Con la medicina somministrata a fare danni, a rilevarsi essa stessa malattia più della malattia che si voleva inizialmente curare. Le recenti nomine nei CdA delle partecipate ufficializzano la dipartita della competenza, il funerale della conoscenza, la consacrazione del cazzeggio parolaio sulla scena pubblica locale. Stessa cosa dicasi per la composizione del governo cittadino: l’esemplificazione di un Manuale Cencelli esasperato ed esasperante, ricercato in incontri one to one, realizzati con i singoli consiglieri comunali.
Il teatrino sulla mozione di sfiducia, da discutere in Consiglio comunale invece che dinanzi ad un notaio, certifica l’esistenza di una logica consociativa nel Palazzo. Dal notaio ti conti e conti; in Consiglio comunale appari, fai scena, coltivi l’ambizione del tuo personale quarto d’ora di notorietà ma non concludi. Non incidi. Lasci le cose cosi come sono, quello che tutti auspicano alla fine. Nessuno vuole andarsene a casa, rinunciare al bonifico mensile, rischiare una nuova campagna elettorale senza certezza di essere rieletti, nonostante i proclami e i comunicati stampa scritti a strascico e in spregio alle più elementari regole grammaticali. Con la rete delle ipocrisie – e delle piccole furberie – tirata su direttamente dal mare popolato di parole a digiuno di fatti.
Melucci è il maggior responsabile di questa deriva sudamericana, il proprietario della casa che va a fuoco. L’uomo sbagliato nel posto giusto. Non è il solo, però. A fargli compagnia c’è una folta schiera di strambi individui, un sistema intero di debolezze e stranezze congenite. Di sei – e passa – personaggi in cerca d’autore. Con i partiti, o quel che resta degli stessi, a reggere il moccolo di un amplesso consumato altrove. E una certa imprenditoria appaltata e subappaltata per interessi di bottega, a digiuno di letture, sempre e comunque zerbino del sindaco di turno. Una borghesia, poi, non l’abbiamo mai avuta. Come avremmo potuto senza su una vera – e autonoma – università cittadina. Il locale sistema dell’informazione sopravvive a se stesso: per comodità ancestrali, per rassicurazioni temporanee. Petrit Sulaj diceva: “Quello che a te è destinato, possiede il tuo stesso passo”. Magra consolazione.