sabato 18 Gennaio 25

Il deficit identitario di Taranto

Leggere la curva demografica dell’ultimo secolo di vita per capire in cosa consiste l’eccezionalità normale della città pugliese. La dipartita degli ultimi maestri. Spunti per una riflessione a metà tra il municipalistico e il narcisistico

Esiste un insuperato – e colpevole – deficit identitario nell’indolenza tarantina. Nella trascurata rassegnazione di sé. Nel disfattismo mitigato con il solito, poco dignitoso vittimismo. In una certa mediocrità avallata come dogma religioso e verità irrinunciabile. E un racconto collettivo interrotto, spurio, il nostro. Non replicabile alle generazioni future per la dipartita dei vecchi maestri. L’eccezionalità della più mediterranea tra le città pugliesi consiste nella sua normalità spacciata per altro. Nelle definizioni inflazionate – e fallaci – che immortalano ciò che, per sua stessa natura, è caduco. Volatile. Sfuggente come certi sguardi furtivi incontratisi, per mera casualità, nei bar di periferia. Il dato demografico di Taranto, l’andamento della sua curva statistica studiata nell’ultimo secolo di vita, comparata con altri centri urbani dalla storia simile, denota una particolarità che non ha eguali nel resto del Mezzogiorno. Il capoluogo jonico, contava sino agli anni ’40 del secolo scorso su una popolazioni di appena 50 mila abitanti. Divenuta, in poco più di un trentennio, quattro volte tanto. Continuata a crescere, per poi arrestarsi e innescare la marcia in senso contrario, con il sopraggiungere della prima metà degli anni ’80. E un picco massimo di circa 245 mila abitanti raggiunto nel 1984.

Il raddoppio del centro siderurgico, la Marina Militare, la raffineria Eni, offrivano lavoro al ritmo – e con le suggestioni – di una città del Nord. Opportunità non replicabili nei tanti Sud limitrofi. In quel preciso momento, in quell’interstizio economico a digiuno di adeguati processi culturali di accompagnamento, s’innerva l’eccezionalità molto normale di Taranto. La crescita scomposta, senza sintesi, priva di amore municipalistico. Leccesi, brindisini, baresi, calabresi, lucani, napoletani emigrarono a Taranto e non solo a Milano e Torino. Taranto crebbe, divenne popolazione senza mai sentirsi popolo. Accarezzò un pluralismo posticcio soffocando la singolarità di un’identità dispersa in mille rivoli. Il ce mene futt a me (che importa a me) nacque allora. E divenne mantra – e speculazione filosofica – di un bene comune vilipeso, esasperato nel suo esatto contrario. Tolta la squadra di calcio e la birra Raffo, restammo – e restiamo – apolidi in casa nostra. Stranieri con il foglio di visto negatoci alla soglia della patria che ci svezzò. Tara(ti) più che Taras. Comunque troppo distanti dalla sorgente del Tara. Il fiume dei miracoli dai quali non vogliamo – e possiamo – allontanarci.

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