Contrariamente all’uomo raccontatoci da Arturo Pèrez-Reverte, l’edilizia cittadina non osa. Non innova. Non rivoluziona. Acrobatica, ma mai catartica. Taranto ha problemi con la verticalità. In tutti i sensi
Più verticalità. Nell’edilizia cittadina. Negli immobili poco mobili. Nell’altezza mezza bellezza. Più verticalità nella postura civica; nella dignità municipalistica. Incline nell’abbracciare l’orizzontalità, un orizzonte privato di utopia, dai paesaggi monocorde, dalle suggestioni sdraiate per terra, Taranto familiarizza poco con la verticalità. In tutti i sensi. L’hombre vertical evocato da Arturo Pèrez-Reverte nei suoi magnifici romanzi, uomini tutto d’un pezzo, che restano in piedi anche quando attorno a loro molto è già andato gambe all’aria, diventano sempre più una rarità. L’eccezione che (non) conferma la regola. L’edilizia si è fatta acrobatica, tutt’al più. I boschi di Boeri seguono, in scia, un identico condizionamento. Ma mai catartica. Rivoluzionaria. Autenticamente innovativa. Al pari dei comportamenti umani. Relegati nella comfort-zone delle ovvietà. Assuefatti al mantra del pensiero unico, del pensare stanca.
E, invece, puntare sull’altezza libererebbe spazio in superficie: per i servizi, per il verde pubblico, per i parcheggi. Per i sogni non stereotipati. Per l’inverno demografico, conseguenza logica dell’inverno progettuale. Fornirebbe a Taranto, insomma, la stura di città moderna: capitale dimenticata di un Mediterraneo equivocato. Nella cura dello spazio si cela l’immortalità del tempo. Da sopra si vede meglio, cogli i particolari che passeggiano sull’asfalto. In un passato non lontano qualcuno auspicava che si volasse alto. Non soffriva, con molta probabilità, di vertigini. E si era messo in testa di voler grattare il cielo. L’edilizia senza malizia.