Il Sud muore. Lentamente. Proprio come recita nel titolo una struggente poesia di Martha Medeiros, erroneamente attribuita a Pablo Neruda. Muore economicamente. Muore dal punto di vista demografico. Muore socialmente. Muore culturalmente. I dati, snocciolati, freddi, quelli che sarebbero piaciuti ad Alberto Ronchey, e al suo giornalismo tecnico (non è un caso se nell’ambiente gli fu affibbiato il nomignolo d’ingegnere della parola), non ammettano repliche. Nel 2020 i lavoratori meridionali erano circa 6,2 milioni: oltre il 2% in meno rispetto al 2019. Il tasso di occupazione (numero di occupati sulla forza lavoro) è calato al 45%, quello di disoccupazione è salito al 16,6%. Sono disoccupati quasi un giovane su due, una donna su cinque. In termini di ricchezza Nord e Sud sembrano due Paesi diversi. Nel 2018 la ricchezza netta delle famiglie italiane variava dai 195 mila euro (a famiglia) del Nord-ovest ai 98 mila del Mezzogiorno. Al Sud s’investe soprattutto nel mattone, che dà un tetto ma non molto altro. Al Nord la ricchezza prende anche altre strade: l’investimento finanziario e industriale denota maggior capacità di risparmio e usi più produttivi dello stesso. Il denaro genera soldi. Nel 2019 l’incidenza dei prestiti al consumo sul debito familiare era il 20% al Nord, il 23% al Centro e oltre il 35% al Sud. Il Covid-19 ha cancellato in tre mesi quasi l’80% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 e il 2019. Al Sud l’occupazione femminile persa nella prima metà del 2020 (171 mila posti) è quasi il doppio di quella creata negli ultimi undici anni. Gli enti locali del Mezzogiorno hanno dipendenti mediamente anziani e poco istruiti: quasi il 40% ha oltre sessant’anni (il 17% nel Centro-Nord); uno su cinque ha la sola licenza elementare, altrettanti sono laureati (rispettivamente 18 e 24% nel resto d’Italia). Si spiega anche così perché i soldi quando ci sono, si spendono poco e male. Nel ciclo 2014-20 l’Italia ha avuto 54,3 miliardi per le politiche europee di coesione (fondi Fesr e Fse): 19,7 miliardi da Roma (a titolo di cofinanziamento), il resto da Bruxelles. A giugno 2020 ne risultava erogato il 42% al Centro-Nord, il 29% al Sud. Il divario con i Paesi più sviluppati dell’Unione europea, già ampio nel 2008, ne esce ulteriormente rafforzato. Se il tasso di occupazione dell’Italia (59%) fosse uguale alla media Ue (68,8%), oggi avremmo circa 3,7 milioni di occupati in più. Siccome nel 2019 gli occupati al Centro-Nord erano il 66,6% contro il 45% scarso del Sud, il nostro ammanco occupazionale è dovuto quasi interamente al Mezzogiorno: 3,2 milioni su 3,7. In un circolo vizioso, desertificazione economica e sofferenza sociale si alimentano. Al Sud il tasso di scolarizzazione superiore non raggiunge il 78%, contro l’84% del Centro-Nord. La dispersione scolastica risucchia in media il 17% degli studenti rispetto al 12% circa nel resto d’Italia. Dal Duemila ad oggi la popolazione residente al Sud è diminuita di oltre 33 mila abitanti, contro un aumento di 3,2 milioni nel Centro-Nord. La sola popolazione autoctona meridionale è calata di circa 777 mila unità, al Nord di appena 15 mila. L’elevata frammentazione del sistema produttivo, lo scarso livello d’istruzione di molta classe imprenditoriale, la ritrosia a fare ricerca e innovare acquisiscono dimensione più che doppia rispetto al resto del Paese. Le grandi Università sono localizzate tutte al Centro Nord. Stessa cosa dicasi per le redazioni dei giornali. Il sapere, cioè il potere vero, la persuasione di lunga durata, come la linea della Palma cara a Sciascia, si è spostato al Nord. Si spera adesso nel Recovery Fund, l’ultima grande occasione per risalire la china. Per invertine l’eutanasia del Meridione. Perché è bene che si sappia: se muore il Sud, a catena muore anche il Nord. E, con buona pace dei nostri padri risorgimentali, si dissolve l’idea stessa d’Italia.