di Rosa Surico
L’ attrezzo artigianale di pesca che incarna un forte simbolismo di vita, rinascita e continuità tra passato e presente,legame indissolubile tra l’ uomo e il mare
Intreccio, una parola dal ricco significato etimologico da Nord a Sud e isole comprese.
Letteralmente fare le trecce. Sono tante le leggende antiche su di essa, dalle “donne siciliane con le trizzi”, alle criniere intrecciate dei cavalli ad opera di janare, di folletti magici e dispettosi, come il munacidd nella tradizione folkloristica sia della Puglia che della Basilicata. Spaziando oltre oceano le troviamo anche in altre civiltà, come quella dei vichinghi le cui trecce erano simbolo di forza nella guerra e protezione, abbondanza.
Il periodo di massima espansione rimane il medioevo, ma al sud dell’ Italia invece, più di 11 mila anni fa, l’ arte di fare trecce sviluppò un vero e proprio mestiere nel mondo dell’ agricoltura e della pesca, portando con sé anche tutto il significato spirituale del gesto: groviglio, contaminazione, miscuglio, abbraccio fitto tra la parti legnose di piante e alberi.
L’ arte della cesteria quindi, che utilizza varietà in base alle esigenze del trasporto:il salice, la canna comune (o giunco), il nocciolo, olmo, ginestra, vitalba e olivo, oltre a fibre più sottili come l’erba, la paglia o la rafia,ecc.
Basti pensare che anche nell’ Antica Grecia
kalathos, era un cesto intrecciato e di culto( fiori ,lana..)per la dea Demetra. Per i Romani era in onore della dea Minerva; aveva forma conica e veniva usato anche per la vendemmia e la mietitura. La stessa allegoria dell’ Italia Turriata e stellata, è rappresentata nel cartiglio della carta geografica che l’ rappresenta il territorio italiano, con la cornucopia, quella dell’ abbondanza.
A Taranto un prezioso esempio di questa arte antichissima è la nàsse, strumento utilizzato per la pesca. Era abilità dei pescatori non solo intrecciare i rami di giunco per realizzarle, ma soprattutto riconoscere il fondale sul quale andavano a posizionarle. Il fortunato strumento era in uso fin da prima della conquista romana dei paesi del Mediterraneo, ed era utilizzata sia nelle acque dolci che in mare. Era sufficiente immergerle, legate con una corda di sicurezza per facilitarne il recupero, nel punto in cui c’era del pesce. Le nasse onnipresenti in ogni epoca.
Un’apertura a imbuto permetteva ai pesci di entrare ma non di uscire e venivano innescate con esche fresche.

A Taranto il mare è sempre stato un bacino florido di varietà di pesce, tipiche del Mar Ionio fino ai tempi più recenti. Le nàsse si riempivano di gronghi, murene, aragoste (o canocchie), tanute, polpi, granchi , boghe, zerri e pesci di fondo come dentici, saraghi e occhiate, utilizzando esche come pesci salati, calamari o seppie. Come testimonia il ricercatore Fabio Caffio, nel Regno delle Due Sicilie, Taranto aveva già una sua precisa identità marittima e la città “eccelleva anche nella pesca e nella produzione di mitili. Dopo la distruzione della Città nel 927 d.C. e la sua rifondazione nel 969 d.C. ad opera degli Imperatori d’Oriente si ha evidenza della concessione di diritti esclusivi di pesca in alcune zone del Mar Piccolo a comunità di monaci basiliani. Sorsero allora le “peschiere“, sorta di appezzamenti di aree marine delimitati da pali e corde di giunco lungo la costa del Mar Piccolo; il fatto che su questi pali attecchissero le larva delle cozze, indusse forse a sviluppare la tecnica dell’allevamento dei mitili”.
Ma non solo, lo stesso Ammiraglio, studioso della Città dei due mari, nel suo studio del
2015, in occasione della celebrazione del 150° anniversario della Capitaneria di Porto di Taranto: “La rinascita di Taranto marittima agli albori dell’Unità d’Italia: il ruolo dell’ l’Autorità marittima” , testimonia che
“Nel 1865 si insedia a Taranto, proprio sulla riva del Mar Piccolo ove era l’edificio della Dogana del pesce, il Compartimento marittimo a dimostrazione di come il Governo unitario fosse consapevole delle potenzialità marittime di Taranto ed intendesse incrementarle. Può dirsi quindi che inizi, così, dopo i fasti della Magna Grecia e dopo il lungo sonno dell’Impero Bizantino e della dominazione spagnola, la terza fase della vita della Città caratterizzata da una crescita impetuosa. Non si tratta, per la nuova Capitaneria, di gestire soltanto le attività marittime connesse alla costruzione della base navale … Ma tutelare le attività di pesca e molluschicoltura …”
La complessa lavorazione manuale della nàsse tramandata di generazione in generazione, la rende ancora oggi simbolo di resistenza culturale, esempio di arte che si rinnova e si perpetua nonostante l’ avvento delle stesse in materiale sintetico. L’ intreccio delle nàsse si convalida oggi, come prezioso simbolo di buon auspicio, di prosperità, protezione, memoria e legame della città di Taranto con il mare, con i due mari.
In evidenza foto di una Nàsse, esposta nella Chiesa di Santa Maria della Scala, nel cuore della Città Vecchia.


