sabato 27 Luglio 24

Lo Iacovone non fa più rumore

Inchiesta di CosmoPolis sulla prolungata disaffezione del tifo tarantino. E le ragioni, a nostro parere, poco riferibili al dato sportivo che si celano dietro questo fenomeno. Nel capire cosa stia avvenendo ci aiuterà Trilussa con le sue convinzioni in materia di fede (calcistica)

I tarantini non vanno più allo stadio. O, meglio, ad andarci sono ormai in pochissimi. Una sparuta minoranza. Una quota irrilevante del popolo tifoso. Quest’anno – almeno sinora – la media degli spettatori, per quel che concerne le gare casalinghe, è stata di appena 1503 presenze a partita. Taranto, come numero di abitanti, è seconda alla sola Messina tra le città che militano nel campionato di Lega Pro, Girone C. Ma, alla consistenza demografica, non fa più da contraltare un’eguale presenza di supporters rossoblu allo stadio la domenica. I numeri di una volta sembrano essere andati per sempre. Volati via. Dispersi nei rivoli di una disaffezione che, alle nostre latitudini, non si era mai registrata con queste proporzioni. E, poi, per così lungo tempo. Lo Iacovone non fa(i) più rumore. Non ci riuscirebbe, forse, neanche se ospitasse un concerto con Diodato di ritorno da Sanremo. Piazze più piccole, con una storia calcistica meno importante rispetto a quella tarantina, esibiscono numeri ben più rilevanti. Per fare qualche esempio, e volendo comparare il dato dell’impianto ubicato al quartiere Salinella con quello riferibile ad altri stadi pugliesi, a Monopoli e Cerignola la media degli spettatori nelle partite casalinghe è più alta: 1703 per la compagine adriatica; 1729 per la squadra della capitanata. Andria e Foggia, poi, con i 2238 della prima e i 4693 della seconda, conseguono percentuali di pubblico ancor più lusinghiere. Non si calcoli neanche il dato di Catanzaro, Crotone e Pescara (potrete ricavarlo da soli, scorrendo la tabella a corredo del presente articolo): squadre che occupano i piani nobili della classifica. Dove – e perché – si è rotto l’incantesimo? Cosa ha trasformato una passione forte, viscerale, in un afflato triste? Qualche anno fa l’inglese BBC, la più antica emittente televisiva al mondo, realizzò un’inchiesta sul calore – e colore – del tifo rossoblu. Qualcosa che si ponesse a metà strada tra lo studio sociologico e l’analisi del mero dato sportivo. Poche tifoserie in Italia – e nel Vecchio Continente – conclusero i cronisti di Sua Maestà possono contare su un legame così insolubile, quasi ancestrale, dal forte richiamo identitario, come quello che si registra nella città di Taranto. Nonostante la locale squadra, sia l’unica o comunque tra  i pochi sodalizi calcistici riferibili ad un capoluogo di provincia, a non aver mai disputato un campionato di A, nella massima serie nazionale. Sembra essere passata un’era geologica da allora. Da quel reportage che ci resi famosi in Europa. Che seppe inorgoglirci neanche avessimo vinto la Coppa del Mondo. Il calcio è cambiato, d’accordo. Ci sono gli abbonamenti tv. I social. Il tifo per le squadre che giocano la Champion. Il Taranto pensa a salvarsi e a poco altro, nonostante sia tornato tra i professionisti da appena un paio di stagioni dopo anni e anni trascorsi nei campi polverosi – e anonimi – del dilettantismo. E’ vero. Non fa una piega. La storia recente dice questo, chi potrebbe negarlo. Ma c’è dell’altro. C’è qualcosa di più profondo, e crediamo di poco sportivo, in questa disaffezione che rompe uno schema e capovolge la più resistente delle tradizioni. Il più irrazionale – e spontaneo – degli abbracci ideali. Qualcosa d’intimamente politico. Un interesse altro che niente c’entri con il gesto tecnico. Con i comportamenti della dirigenza attuale. Con i risultati conseguiti sul campo. Troppi chissà, come e perché. Quanto basta per far dire a Trilussa che la fede di un tempo sia evaporata. Trasformata in un silenzio sinistro. Un silenzio rumoroso in grado di rendere lo Iacovone il fantasma di ciò che seppe essere un tempo.

 

 

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