di Marco Tarantino
Intervista esclusiva a Luciano ‘Lucky’ Liuzzi, Maestro e Direttore Tecnico del fiorente CT Palagiano: tennis d’autore e d’amore attraverso epoche trascorse solo per bandire i nostalgismi e accettare ogni prossima sfida
NON LO AVEVANO AVVISATO, Luciano ‘Lucky’ Liuzzi, che l’onda lunga del post Panatta non era più neanche un rigo sulla riva, che i circoli degli anni ’80 chiudevano a ruota dopo essere spuntati come cardoncelli nella seconda metà dei ’70. Che i suoi colleghi da Maestri per campare si erano ritrovati a inventarsi bancari, assicuratori, broker, gestori di B&B e chissà cos’altro, una volta spariti dai radar. Che trasformare i campi da tennis in moquette da calcio a 5 era di gran lunga più conveniente di qualsiasi altra opzione.
Se invece lo avevano avvisato, non ci badò. Classe ’51, tarantino cresciuto a Statte, gran giocatore di tocco e di colpo, ‘Lucky’ se ne fregò del pessimismo dilagante, del contesto deprimente, mollò le certezze dello studio da geometra, la testa di agonista, i sogni di tabellone e decise che il crepuscolo intorno non lo avrebbe ingoiato, che era arrivato il momento di trasmettere il testo e non più di choppare il rovescio.
E, anziché lasciare, raddoppiò.
L’ultimo, appunto: dei Mohicani. A crederci. Un sopravvissuto. Un irriducibile.
Un innamorato.
“Non saprei darti una data. Cambiò la percezione dei giorni. Iniziai a essere un giocatore-palleggiatore, poi allenatore-istruttore, poi Maestro a tutti gli effetti attraverso la trafila delle qualifiche e della gavetta. Non avrei fatto altro, non avrei voluto fare altro. Non c’è un centimetro della mia vita di cui possa pentirmi”.
A differenza del Buffalo Bill di De Gregori, non si sistemò sul ciglio della strada a osservare l’America che non riconosceva più, la diminuzione dei cavalli bradi, l’aumento dell’ottimismo commerciale, i ricordi di chi s’imbroda come un mantra la lagna per cui niente potrà essere più come prima. Lucky si rimboccò le racchette, che da padelline di legno erano ormai diventate prodotti di ricerca Nasa e accettò di accettare qualsiasi paradosso, complicazione o fantascienza sportiva i Tempi Nuovi gli avrebbero proposto (o inflitto). Sono qui, disse: vediamo. E’ ancora qui. Più che mai qui.
Lo convoco infatti per tuzzare una birra al Crival di Palagiano, il paese dov’è ormai di casa da oltre trent’anni e dove ha costruito, con altri sognatori, un miracolo persino più sociale che sportivo. Le due ore di reunion sono state più brevi della percezione di un ace: se a un certo punto non si fosse fatto Capodanno non sarei mai riuscito a stoppare il suo fiume di scienza e conoscenza tennistica from the baseline.
Poiché è appunto da fondocampo che in questa ballata d’epocheè necessario scolpire. Prim’ancora che colpire.
“GIOCAVO A CALCIO, regista basso, e lavoravo in uno studio già dal terzo geometra. Non mi dispiaceva. Avevo la mano del disegnatore tecnico: ho sempre pensato che mi abbia aiutato anche nel tennis, specie per la palla corta, il drop shot, ché tanto ormai è tutto in inglese. Lo sai? E’ tornata di moda. Facciamo meeting, workshop, corsi di aggiornamento. Da decenni ormai collaboro con Michelangelo Dell’Edera, di fatto il numero uno nazionale e pure team manager della Davis, per il quale sono stato responsabile di mezzo centrosud. Oggi condivido con Mario Pierri l’incarico di tecnico provinciale. Ci confrontiamo, ne discutiamo in ogni parte d’Italia. E’ diventato essenziale lavorare per quello che si definisce ‘tennis universale’. Palla corta e demi-volée sono catalogate come colpi speciali. Non si può più farne a meno, come del servizio. Ti… dicevo”.
Che giocavi a calcio, Lucky. Anche bene. “Sì. Ma mi affascinava il tennis in bianco e nero delle prime immagini in tivvù, anni Sessanta, Nick Pietrangeli, quelli che il grande Clerici chiamava ‘gesti bianchi’. L’ovale era talmente minimo che, se aveva piovuto, sulla terra sembrava di colpire una palla da bowling con una bacchetta. I ritmi erano così lenti che somigliavano a un replay. Era il tennis del talento e basta: non esisteva altro”. Né serve che esista, quando si parla di sogni. “Guardavo. Incameravo. Se ho un dono, è la memoria visiva. Da autodidatta, mi veniva naturale ripetere sul campo i movimenti, i gesti, le posture che mi estasiavano in televisione, Pietrangeli appunto, ma anche Laver, Rosewall, Santana. La gente mi diceva: si vede che hai scuola, chi è il tuo Maestro? Nessuno credeva che mi fossi fatto da solo”.
Virtù, Lucky. Sulla testa di alcuni piove il sole, e fa il contrario che renderti fradicio. “Lasciai il calcio, continuai da geometra ma nel frattempo decollava il tennis e cresceva il CT Montetermiti di Statte, che sarebbe diventato tra i primi in Puglia se non il primo. Ruotava tutto intorno alla figura leggendaria del maestro De Panfilis. In breve ne divenni il braccio destro e direttore sportivo. 24 ore erano troppo poche per una giornata come quelle là”.
Renzo De Panfilis, il westerner. Baffo e zigomi alla Lee Van Cleef ma più cattivo di Sentenza, la Stan Smith nera al posto della Colt: “Muovi quelle cazzo di gambe, tizzone infernale”; o anche: “Sei un balenco, mi sembri Pinocchio”. Eh, Luciano. “Stravero. Però i suoi allievi poteva massacrarli soltanto lui. Se qualcun altro li sfiorava, apriti cielo: se ne volavano i calendari con tutti i santi. Un mito. Quanto mi manca”.
Binari, amico mio. Ognuno segue i propri, quando li riconosce. I tuoi avevano Palagiano per punto d’arrivo.
“PER CERTI VERSI anche di partenza. Non che mi fossero mancate altre esperienze, quando Montetermiti finì il suo ciclo: il Magna Grecia a Taranto, Massafra, Castellaneta, Conversano. Paolo Pucci mi stimava e mi cercò, era il novembre dell’88. Per un po’ conciliai con Conversano, poi solo Palagiano. Non credo esistano altri Maestri con più di trent’anni di continuità nello stesso club. Pucci è stato il mio primo presidente. Dopo di lui il prof Piero Sudoso, fondamentale per i rapporti con le scuole, Lino Albanese, Vincenzo Battista oggi. Trovai una base splendida come queste e altre persone intorno, mentre ovunque il tennis moriva: di fatto, nella provincia, restammo in piedi solo noi e San Giorgio. Crescemmo, siamo cresciuti. Adesso il CT Palagiano ha due campi coperti, uno scoperto, uno di beach tennis e uno di beach volley, uno di padel. Eh sì, anche di padel. Pietrangeli ha detto che è il trionfo delle pippe. Ha ragione, ma che vuoi farci. Grazie a Sinner è tornata l’età dell’oro, si nota, si respira, il campione è necessario per la promozione ma se a Palagiano ci fossimo limitati ad aspettarlo saremmo sepolti da un pezzo. Abbiamo ottanta tra ragazzi e ragazze, più di venti adulti, le prenotazioni scoppiano. Ci proponiamo nelle scuole sin dalla prima elementare e gli iscritti non ci mollano più. Poi c’è la chicca, il Mandarin Bowl. Lo abbiamo creato nel 2006. La 16ma edizione, il mese scorso, ha visto in gara 255 ragazzi provenienti da ogni regione”.
Dev’esserci una ragione e la immagino, Lucky. “Non puoi, non devi porti come un padre-padrone. Devi accostarti con umiltà a ogni singola situazione. Il fattore umano fa la differenza più di come spieghi lo slice. I bimbi e i ragazzi devono prima di tutto divertirsi, sorridere, essere sereni, indirizzati in attività multisportive. Per giunta, guai a incanalarli in uno schema-base, in uno stile unico, come accadeva un tempo: ciascuno deve essere indirizzato secondo la propria espressione. Il telefono mi squilla di continuo, mi chiamano da ogni angolo d’Italia e del mondo per salutarmi, confrontarsi, chiedere. Gli anni diventano istanti, quando penso a quarantenni che ho messo in campo a sei anni e sembra ieri. Per esempio Rocco Marinuzzi, il mio allievo migliore, che oggi è il primo assistente nazionale di Dell’Edera. Quando torna a Palagiano è una festa per tutti”.
SI PASSA UN DITO sul mento ispido. Ebbe criniera nera come i baffoni, che spesso corredava di una barba da guerrillero zapatista: i baffi sono sempre lì, insieme a una scheggia di pizzo bianco anch’esso, da Aramis della palla cantante. “Gioco 4 doppi la settimana. Trovassi un over 70 a livello, punteremmo ai tornei nazionali e non per fare scampagnate”. Sorride, e gli si allargano i mustacchi. De Gregori dev’essere invisibile sulla terza sedia del Crival, penso, se oggi mi torna così spesso: anziché di poca malinconia, come quel pianista di pianobar, Lucky è un uomo di nessuna malinconia. Sorrido anch’io, e siccome non so che dire lascio che il suo fiume sia. “No, per me non ci sarà pensione. Ci sarebbe stata se fossi rimasto in esercito, come avevo quasi deciso dopo il diploma: ero ufficiale carrista a Pordenone. C’erano pure bei campi da tennis, e gente forte, giocavo ogni giorno. Stavo per mettere firma, ma la mia famiglia mi dissuase e tornai giù. Oggi sarei un placido colonnello in pensione”.
Probabilmente seduto sul ciglio di una strada, a osservare le praterie che non aveva cavalcato mai, più triste di un mustang davanti a una locomotiva. “Non cambiare mai gioco, quando stai vincendo: ma cambialo sempre quando sei sotto, perché significa che ti sei adeguato all’andazzo del match, al tran tran. Significa che stai facendo l’impiegato al servizio del tuo avversario. Me lo insegnò Paolo Pucci da capitano giocatore: due set su due vinti al tiebreak da 2-5, stravolgendo tattica e inerzia come lui mi aveva suggerito. Non l’ho dimenticato più”. Perché se una palla resta uguale a quella che la precede, allora hai fatto molto peggio che perdere una partita: hai tradito il Senso. Scrisse Laferriére: Qualsiasi storia è stata già raccontata, è vero.
E poi aggiunse: ma non da te.
Vola, Lucky, e chi ti prende.