L’ufficiale tarantino dei Carabinieri ucciso dalla mafia il 4 maggio 1980 resta un simbolo di coraggio e sacrificio per la legalità
Sono passati quarantacinque anni dalla notte del 4 maggio 1980, quando il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile fu assassinato da due sicari mafiosi mentre era in compagnia di sua moglie e la sua bambina di appena 4 anni. Lo colpirono alle spalle, freddandolo davanti agli occhi della moglie. Un omicidio brutale, pensato per lanciare un messaggio chiaro a chiunque osasse ostacolare gli interessi mafiosi.
Oggi, in occasione dell’anniversario della sua morte, ricordiamo non solo il carabiniere, ma soprattutto l’uomo coraggioso che ha sacrificato la propria vita per difendere lo Stato e combattere la mafia.
Basile, originario di Taranto, aveva solo 30 anni quando fu ucciso. Era stretto collaboratore del giudice Paolo Borsellino, all’epoca sostituto procuratore a Marsala, e stava portando avanti indagini delicate su traffici di droga e intrecci mafiosi, lavorando al fianco delle prime procure che iniziavano a costruire una strategia investigativa contro Cosa Nostra.
La sua morte scosse le istituzioni e la società civile, diventando un simbolo del costo enorme che paga chi decide di stare dalla parte della giustizia e sfidare apertamente la criminalità organizzata.
Ricordare Emanuele Basile significa non solo onorare un uomo valoroso, ma anche rinnovare l’impegno contro la mafia e per la giustizia. È un dovere morale e civile, perché — come amava ripetere Paolo Borsellino — “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Basile, con il suo coraggio, ha scelto di vivere e morire senza paura. E per questo non sarà mai dimenticato.
[Foto pagina Facebook “Capitano Emanuele Basile”]