Leggere il bellissimo libro di Filomena Fantarella sulla vicenda umana di Gaetano Salvemini. Sulla dignità degli uomini veri che oggi, sempre più, scarseggia. Sull’intelligenza colorata, irriverente. Perchè, per sua stessa natura, mai doma. Il Comune di Molfetta negò la cittadinanza al suo figlio più famoso. Per offrirla a Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, futuro genero di Mussolini. La Storia si ripete, cambiando pelle. Mutando la forma, ma non la sostanza
Andrebbe fatto leggere nelle scuole il bellissimo libro di Filomena Fantarella, edito da Donzelli, Un figlio per nemico – Gli affetti di Gaetano Salvemini alla prova dei fascismi. Divulgarlo nello smorto – e deprimente – dibattito al boro(talk) show dei nostri giorni. Farlo conoscere alla politica, ai suoi protagonisti: analfabeti funzionali di passioni scarsamente amalgamate ai ragionamenti. D’idee non sporcate da commerci rovinosi. Fantarella ricompone un vulnus, uno spazio opacizzato, colpevolmente protrattosi nella nostra storiografia. E cioè: la vicenda privata di uno dei maggiori protagonisti del Novecento italiano. Mediante la pubblicazione di lettere inedite, di drammi familiari che s’intrecciano con la catastrofe fascista, si delinea – e prende forma – la complessa vicenda umana di Salvemini.
Dei fatti che accaddero il 28 dicembre 1908, con il terremoto che rase al suolo la città di Messina. Il giovane professore universitario pugliese sopravvisse a quella sciagura; ma la moglie, i suoi cinque figli, sua sorella, non furono risparmiati. E ancora: della sua nuova esistenza con Fernand Dauriac, che diventerà prima amica e poi compagna di vita. E con la quale decise di trasferirsi a Firenze nel 1916, assieme ai figli Jean e Ghita, avuti da Fernand con il primo marito. Questo legame sarebbe stato per Salvemini all’origine di una seconda tragedia familiare: Jean, in seguito alle vicende meticolosamente ricostruite in questo testo, finirà per aderire al nazismo. E diventerà nella Francia occupata dai nazisti il “Fuhrer della stampa collaborazionista”.
Arrestato nel 1945, Jean, che l’intellettuale antifascista considerava come figlio suo, l’anno seguente sarà processato e giustiziato come traditore. Chi c’era quel giorno, quando Salvemini seppe della fucilazione di Jean, gli sentì dire: “Ho voglia di morire”. Ma l’uomo – ed è la vicenda sulla quale vorremmo soffermarci maggiormente – subì, come se non bastasse, anche l’onta della cittadinanza negata. Toltagli dalla sua città natale: Molfetta. Perché venisse conferita, immediatamente dopo, a Costanzo Ciano: padre di Galeazzo, futuro genero di Mussolini. In una cerimonia che aveva tutta la pomposità, gli sfarzi, la retorica farsesca di un regime autoritario quale fu quello fascista. La cittadina adriatica, con quel gesto, volle prendere le distanze dal suo figlio più famoso. Il più irriverente. Dal carattere indomito; dall’intelligenza colorata. Perché, il già direttore dell’Unità, aveva osato sfidare il governo. Non accettando l’offa di denaro con la quale Mussolini tentò di comprarne il silenzio, mantenendolo in servizio come professore all’Università di Firenze.
Salvemini, invece, firmò di suo pugno la lettera di dimissioni dall’ateneo toscano. “Ritornerò – scrisse nella missiva – a servire il mio Paese nella scuola, quando avremo conquistato un governo civile”. Lettera che nessun giornale italiano pubblicò, eccezion fatta per il quotidiano inglese New Statesman. Cosa resta di questi esempi, del coraggio che non retrocede dinanzi a niente (e nessuno), della vita che senza dignità non merita di essere vissuta, nella sgraziata Italietta di oggi? Poco. Pochissimo. “Guai a coloro – ammoniva Salvemini – che, disperando, si danno per vinti prima di aver combattuto”. A tutti quelli che non mollano, consigliamo di leggere il libro di Filomena Fantarella.


