La più insulsa campagna elettorale degli ultimi anni conferma un dato. I tarantini sanno essere soltanto portatori di voti. Accompagnatori parolai del protagonismo altrui. La seconda città della Regione non ha mai espresso un candidato presidente
La più noiosa campagna elettorale degli ultimi anni ha chiuso i battenti l’altra sera. Insulsa, anestetica per due ragioni. La qualità dei candidati, e i temi affrontati, non si sono mai staccati da una modestia urticante. Procedendo all’unisono verso lande fredde. L’esisto scontato del risultato finale, poi, ha chiuso il cerchio su una partita orfana di suggestioni. Monocorde come certe litanie medioevali. Non c’è nitore, chiarezza, una precisione coinvolgente nella politica pugliese e nei suoi interpreti. L’astensione a due cifre, la disaffezione sempre più crescente, denotano passioni tristi. Ammiccamenti flaccidi. L’avanzata in senso contrario di una democrazia pendula.
La Puglia è l’estensione lunga di un Paese lungo. Differenziato nella sua unicità senza effettiva unità. Compito della politica, di una classe dirigente preparata e responsabile, è quello di ridurre le distanze invece che acuirle. Distanze economiche. Sociali. Culturali. Di eguali opportunità ai nastri di partenza. Il caso di Taranto, sotto questo profilo, rimane emblematico. Nella città dove si misura il grado di modernità, combinato con una griglia dignitosa di diritti, i fatti latitano e le parole abbondano.
I tarantini, per colpe principalmente proprie, sono semplici portatori di voti. Oggi di Decaro. Ieri di Emiliano. L’altro ieri di Vendola e Fitto. Non incidono. Non contano. Non esprimono mai un candidato presidente. Disperdendo il rango di secondo capoluogo della Regione nelle chiacchiere di opportunisti senza gloria. E accontentandosi di sedere in quarta – e quinta – fila perché allergici al protagonismo. Spartani sì, ma non di nobile lignaggio. Il santo irlandese, amante dei forestieri, limita la nostra postura mediterranea. Santo cielo come ci siamo ridotti.


