Alla nostra democrazia è rimasto il governo ma si è dileguato il popolo. Per i politologi la situazione è preoccupante. Molto preoccupante. I presidenti di Regione eletti saranno presidenti di minoranza. Dimezzati. E stasera avrà perso anche chi avrà vinto
Il significato etimologico della parola democrazia è “governo del popolo”. Ma, se consideriamo i livelli di astensione raggiunti, le percentuali sempre più esigue di votanti, la disaffezione ben oltre il 50% degli aventi diritto, alla democrazia resta il governo ma si dilegua il popolo. La sovranità ma non i sovrani. E il comando, chiunque dovesse esercitarlo, si dimezza. S’impoverisce. Alla stregua della vittoria. Le nostre assemblee, gli esecutivi, sono retti ormai da perdenti di successo. Da presidenti e sindaci di minoranza. Non più rappresentativi delle istanze che provengono dalle comunità di riferimento. Vertici di frazioni numeriche poco rilevanti.
Una dinamica preoccupante, questa, che interessa sempre di più gli scienziati sociali. I politologi. Gli esperti di flussi elettorali. Dal secondo dopoguerra ad oggi, l’involuzione della partecipazione è proseguita con passo lento ma inesorabile. Negli ultimi vent’anni, poi, alla certezza si è aggiunta anche un’andatura più frenetica e spedita. Dagli esiti prevedibili. Senza una grande riforma della politica, intesa come selezione della classe dirigente e ripristino dei valori ideali, dei grandi contenitori culturali del Novecento, cominciando dai nomi attribuiti ai partiti, dopo le abbuffate botaniche e da tifo di calcio di questi anni, la democrazia partecipativa rischia di divenire uno sbiadito ricordo. Sostituita da comitati d’affari, da poteri forti, da oligarchie finanziarie. E da quel capitalismo digitale, vero collante di tutte le destre sovraniste ritrovatesi sotto l’ombrello di Trump.
Stasera chiunque avrà vinto avrà anche perso. In Puglia. In Campania. In Veneto. In questo microcosmo d’Occidente posto dinanzi al tornante più difficile della propria Storia.


