Breve storia contemporanea dell’Italia politica: tra speranze tradite e un provincialismo tornato di moda. Modernizzare stanca nel nostro Paese
Nel secondo dopoguerra, la sinistra è arrivata al governo del Paese in diverse circostanze. Assieme al centro democratico. Stringendo alleanze con i cattolici e i liberali. In coalizione con i partiti d’ispirazione laica. Tanto nella Prima quanto nella cosiddetta Seconda Repubblica. Utilizzando denominazioni differenti, delle volte bizzarre, che tenevano conto dei tempi attraversati: formula del pentapartito piuttosto che Ulivo o Unione. La storia del centro-sinistra ha, sostanzialmente, due fasi alle quali richiamarsi. Passaggi dal contenuto politico prim’ancora che di mero riferimento temporale. Quella del coinvolgimento del Psi tra le forze di governo; e, in tempi più recenti, la costruzione di esecutivi riferibili agli ex comunisti. Passati, dopo la svolta della Bolognina, a repentini cambi di denominazione partitica: dal Pci al Pds, dai Ds al Partito Democratico. Gli eredi di Berlinguer, con l’ingresso nell’Internazionale socialista nei primi anni ’90 del secolo scorso hanno, per così dire, compiuto il loro avvicinamento verso le tesi – e le istanze programmatiche – della socialdemocrazia europea. E, per converso, abiurato alla propria storia recente e non. Una democrazia può dirsi realmente compiuta quando tutte le forze politiche si alternano alla guida del Paese. E, l’Italia, per diversi decenni, l’Italia repubblicana e post-bellica, per via di quella che fu ribattezzata come la conventio ad excludendum, non permise tutto questo. Con il Pci tenuto fuori dalla porta di quella che, Pietro Nenni, chiamò “la stanza dei bottoni”. Almeno dalla porta del governo nazionale, perché per i restanti livelli istituzionali (autonomie locali) le cose andarono diversamente. E, in molti casi, si diede vita a giunta di sinistra tra lo stesso Pci e il Psi. Ma quale fu la funzione che i governi di centro-sinistra esercitarono lungo la storia del Paese – o avrebbero dovuto esercitare? Quali i successi? E quali i fallimenti? Avviare, per prima cosa, un ampio piano di riforme istituzionali e socio-economiche divenne l’imperativo categorico che, nel dicembre del 1963, diede vita al primo governo organico di centrosinistra, con Moro presidente del Consiglio e Nenni suo vice. Il nuovo Esecutivo venne salutato come l’avvio di una significativa fase storica nella vita politica del Paese. Si incontravano due forze politiche che avevano un ampia base popolare, due forze che si erano misurate con i problemi sociali della nazione dall’unità in poi, sia pure con diverse prospettive e programmi. La soluzione del centro-sinistra incontrò diffidenze ed opposizioni, sia a destra che a sinistra. Il Pci seguì l’operazione con molto sospetto, temendo di perdere un importante alleato e giudicando il centro-sinistra come un’operazione trasformistica della DC con l’obiettivo di indebolire l’opposizione di sinistra. L’influenza degli avvenimenti internazionali, dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio dei Sessanta, dalla destalinizzazione, alla crisi ungherese, alla rottura tra URSS e Cina, all’avvento di Kennedy, prepararono il terreno per un processo di revisione ideologica che trovò un suo momento significativo nel documento che prese il nome di Memoriale di Yalta, scritto da Togliatti poche settimane prima della morte, avvenuta il 21 agosto 1964. Il segretario del Pci offriva le indicazioni sulle prospettive offerte dalle “vie nazionali al socialismo”, rivendicando l’autonomia dei partiti comunisti di fronte alle diversità che esistevano da un Paese all’altro. La vita del primo governo di centro-sinistra non fu facile. L’espansione produttiva che aveva caratterizzato il ciclo economico italiano tra il 1959 e il 1962 era destinata ad interrompersi per far seguito ad un processo inflazionistico, che il Governo cercò di tamponare attraverso misure che tendevano a ridurre i consumi (aumento delle imposte sulle auto e sui fabbricati di lusso, aumento del prezzo della benzina e limitazioni alle vendite rateali) e a favorire le esportazioni. La situazione economica ebbe riflessi sul piano politico: da destra il Governo veniva accusato di emanare provvedimenti demagogici e costosi; da sinistra si accusavano gli imprenditori di aver accumulato profitti eccessivi, immobilizzandoli in attività speculative. La formazione del secondo governo Moro, nel luglio 1964, fu anche al centro di una vicenda che vide protagonista il generale De Lorenzo (al quale il presidente Segni aveva confessato le sue preoccupazioni circa ipotetici rischi sovversivi) che predispose un piano di interventi che prese il nome di “Piano Solo”, inteso a reprimere ipotetiche azioni violente di piazza. Il Piano prevedeva l’occupazione di prefetture, radio e televisione, istituzioni militari e civili, sedi di partito, di sindacati e di giornali oltre all’arresto di migliaia di persone giudicate sospette. Questi fatti vennero conosciuti solo nel 1967 a seguito di una rivelazione pubblicata sul settimanale l’Espresso. Dopo diversi processi e inchieste parlamentari vennero confermati i fatti denunciati dal settimanale. Il nuovo Governo varò una serie di provvedimenti anticongiunturali, con l’emanazione di un super-decreto nel marzo 1965, a favore dell’edilizia popolare, della viabilità dei porti, dell’agricoltura e dell’industria meccanica. Ma, nel gennaio 1966, si ebbe una nuova crisi di governo cui seguì, la formazione, nel mese di marzo, del terzo governo Moro, al quale si deve anche il provvedimento che doveva portare, a ben venti anni dall’entrata in vigore della Costituzione, all’attuazione del decentramento regionale dopo un serrato dibattito parlamentare. I partiti di destra diedero vita ad un estenuante ostruzionismo (l’intervento di Giorgio Almirante, leader del MSI, durò ben otto ore), nel tentativo di far saltare il progetto di legge. La maggioranza riuscì a contrastare questo ostruzionismo con l’inizio, il 17 ottobre, di una seduta ad oltranza che durò ininterrottamente per 15 giorni. Dirà Aldo Moro a proposito di un’alleanza tra la Dc e i partiti della sinistra democratica, con in testa il Psi, un’alleanza per il governo del Paese e per l’allargamento della base democratica dello Stato italiano: “(…) E’ possibile che battendo la nostra strada, attuando il nostro programma, aderendo alle nostre genuine aspirazioni, questi punti d’interesse emergano per il Psi e ne giustifichino l’adesione in una qualche forma al progettato governo di centrosinistra. Tocca a noi, evidentemente, con profonda serietà, con piena autonomia, con vera consapevolezza delle necessità urgenti del Paese, di proporre senza semplicismi ed insieme senza cedimenti di sorta quegli indirizzi programmatici, quelle prospettive di azione che possano mettere in crisi quella pregiudiziale volontà di opposizione che qualche volta il Psi ha mostrato. E alla nostra assunzione di responsabilità spetta agli altri rispondere con pari assunzione di responsabilità. Non è cosa facile per nessuno, lo sappiamo, né per noi né per loro; ma passa per questa comune assunzione di responsabilità la possibilità di superare il punto d’inerzia e di dare avvio a qualche cosa di nuovo e di costruttivo che valga a porre su nuove e più sicure basi la democrazia italiana”. Completare il Risorgimento, questo è il sogno dello statista pugliese. Per concretizzare il suo auspicio, però, serve ricercare un’alleanza tra diversi, rendere le posizioni inconciliabili un valore, un momento di sintesi avanzata e non di riottosa prevaricazione vicendevole. “Oggi noi abbiamo spostato la frontiera della nostra collaborazione, ma lo spirito della collaborazione è rimasto quello di ieri. Ma non ci siamo spostati ad arbitrio, non ci siamo spostati per un capriccio, non ci siamo spostati per un’assurda deviazione dalle nostre linee direttive; ci siamo spostati in aderenza alle necessità, alle opportunità di una situazione storica, ci siamo spostati verso sinistra, verso forze democratiche di sinistra, le quali rappresentano, nell’ambito di una schietta ispirazione democratica, ceti lavoratori, ceti medi, categorie che sono rimaste a lungo lontane dalla responsabilità del potere, direi diffidenti ed ostili verso uno Stato nel quale non si riconoscevano”, argomenterà sempre Moro. Gli farà eco Pietro Nenni, a voler rafforzare il rapporto dialettico sempre esistito tra i due leader politici, che il centro-sinistra, questo esperimento di governo democratico, “rappresenta la più vasta partecipazione popolare alla vita democratica di massa”. E non è merito di poco conto, “è il merito che Engels riconosceva alla Repubblica in linea di principio, come suscettibile di offrire un valido terreno allo sviluppo della lotta di classe”. L’Italia di quelli anni crebbe, non c’è che dire. Migliorò significativamente il proprio status economico, avviò una serie di riforme, ma non seppe agganciare le profonde trasformazioni in atto nella società ad un duraturo processo di governabilità delle istituzioni democratiche. Anche nella seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso, con una legge ti tipo maggioritario, con le forze progressiste, tanto d’ispirazione cattolica quanto laica riunitesi sotto il cartello dell’Ulivo, cambierà poco. Molte le aspettative nutrite, pochi i risultati realmente conseguiti. Il centro-sinistra divenne, ancora una volta, vittima di se stesso. Della sua conclamata incompiutezza. Non riuscì a trasformare il consenso ricevuto in progetto. E, alla fine, le divisioni prevalsero sui processi unitari. Colpa anche un’eterogenesi dei fini che, assieme a coalizioni estese ed inflazionate dal punto di vista partitico, di fatto determinò l’immobilismo politico. La Seconda Repubblica non si discostò molto dalla prima. Ne perpetro i limiti. Ne accentuò le aporie. Anche, se non soprattutto, per colpa dei fallimenti dei governi di centro-sinistra. Una responsabilità che pesa come un macigno sulla precarietà del presente.