Melucci come il Simòn Bolivar raccontatoci dal realismo magico di Gabriel Garcìa Màrquez? Ma quando mai. L’eroe dell’emancipazione dei popoli sudamericani, dal dominio spagnolo, auspicava più libertà. L’Amerigo del Mar Jonio, invece, soffre la stampa libera. Quel poco ancora d’informazione che esiste e resiste
E’ rinchiuso nel suo labirinto il generale di Gabriel Garcìa Màrquez. Sequestrato dalla più infamante delle prigionie, quella inflitta dalla propria anima. Confinato nel panottico di una vita che si smagrisce. Il tempo avuto a disposizione non è bastato a Simòn Bolivar. Per i popoli sudamericani è cambiato solo il dominatore, alla fine. Non il dominio subito. E scientemente autoinflitto. Guai a confidare troppo in qualcuno o qualcosa. Gli uomini, per esempio. La loro natura resta fedele al tradimento. Ai piccoli cabotaggi. Allo spergiuro che disconosce senza (quasi mai) riconoscere. E’ rinchiuso nel suo labirinto, per ragioni opposte, anche il sindaco di Taranto. Un dedalo diverso da quello descritto – e romanzato – dal premio nobel per la letteratura. Il primo è limitato da un libertà che non avverte come sufficiente e consolatoria; il secondo, invece, è limitato dai limiti che pensa di destinare agli altri. D’imporre ai dissenzienti. A quel poco di libertà di stampa che ancora esiste – e resiste. Alla critica che non diffama, ma legge semplicemente l’esistente accomodandosi da sola al tavolo del cerimoniale pubblico. Libertà positive e libertà negative, insomma. Secondo l’insegnamento ricevuto dal liberalismo inglese e da uno dei suoi estensori più perspicaci: Stuart Mill.
La prigione di Melucci si alimenta di rancori non corrisposti, di odio non ricambiato, di affinità selettive. Di una comunicazione che non contempla l’informazione come sua antagonista. Al pari di certe veline di un passato mai del tutto passato. E’ spazio angusto, spazio senza tempo quello dell’Amerigo Melucci. “Nel regime dell’informazione che diviene intrattenimento, essere liberi non significa agire. Ma cliccare, mettere like, postare”. A scriverlo è, forse, il più grande filosofo vivente: il sudcoreano, Byung Chul Han. Taranto è emblema di una politica che ha ceduto il passo alla psicopolitica. La prigione di Simòn Bolivar è trasparente, lucida insoddisfazione per la piega presa dalle cose. Un grido liberatorio che gareggia con l’impossibile. Il labirinto di Melucci è, semplicemente, desolante.