Leggere Salvatore Rossi per capire in cosa consiste la “Questione meridionale”. Ripassare la lezione di Amartya Sen in un mondo ormai votato alla sola legge della produzione. Il Pil (prodotto interno lordo) andrebbe calcolato a partire dalla felicità di un popolo
Responsabilità sociale. Due parole semplici, un intervallo concettuale complesso. E infinito. La differenza è tutta qua. Passa fulminea – e si costruisce – attorno a questa espressione. Tra noi e gli altri. Noi meridionali, intendo. Autoctoni, e abitanti di un qualsivoglia cono sud del mondo, e la restante moltitudine terracquea. Ricordo di aver letto qualche tempo fa delle dichiarazioni interessanti restituite da Salvatore Rossi, pugliese, barese per la precisione, già direttore generale della Banca d’Italia. Scrivendo su Il Foglio della diversità del Mezzogiorno, della sua limitante peculiarità, limes geografico dai tratti indefiniti, l’economista lanciò l’anatema che in fondo non ti aspetti pur presagagendolo. La “Questione Meridionale”, arguì senza alcuna perifrasi, s’iscrive nell’assenza di capitale sociale alle nostre latitudini. Di una rete d’intelligente supplenza economica tra diversi. Una sorta di limitatezza d’idee, di ristrettezza di pensiero, di atrofia dell’encefalo. L’ingordigia del pezzente arricchito che compra abiti firmati ma non sa come indossarli. E si mangia il caviale portandosi con le mani alla bocca le uova degli storioni. Del cafone all’inferno (titolo di una magistrale opera di Tommaso Fiore). Di quanti insomma, la maggioranza purtroppo, accumulano e rastrellano il possibile – e anche l’impossibile, se è il caso – senza lasciare nulla agli altri.
L’inverno dell’anima è pensare che i soldi, tutti i soldi del mondo, le ricchezze materiali, le grandi abbuffate ai banchetti dello sfarzo, il successo effimero, possano servire per sempre. E che la quantità sia in grado d’incidere e governare la qualità. Niente di più sbagliato. L’imprenditore Della Valle spiegò tutto questo una volta nel fazioso salotto televisivo della Gruber. Mister Tod’s, colui che restaurò con proprie risorse finanziarie il Colosseo negli scorsi anni, considera la responsabilità sociale d’impresa la frontiera più nitida di un’imprenditoria illuminata e moderna. Banca Intesa e Giovanni Bazoli operano alla stessa maniera nelle aree del mantovano e del bresciano. Finanziano l’acquisto di macchinari sanitari, incentivano start-up, distribuiscono borse di studio a giovani talentuosi, s’impegnano nel riscatto culturale delle loro comunità a tutto tondo. Lasciano un po’ del tanto che possiedono agli altri. Instillano del pubblico, inteso come prassi e gestione dell’esistente, nell’esercizio privatistico dei propri averi. Perché lo fanno? Perché hanno capito da tempo una cosa semplice.
Più innalzi la qualità della vita nel contesto in cui vivi, assieme alla tua famiglia e ai tuoi affetti più cari, e più le imprese che controlli avranno la possibilità di prosperare. La ricchezza si espande quando è condivisa. Quando si diversifica senza chiudersi in anguste torri d’avorio. Prassi, questa, ripresa da Amartya Sen: il premio Nobel per l’Economia. Il Pil, ripete l’intellettuale indiano, andrebbe calcolato a partire dal grado di felicità di un popolo più che attraverso la fredda analisi dei parametri economici. Il Sud che resta indietro, che perpetra ritardi, che nutre di odio e invidie la sua irrisolta questione, che vede i luoghi deputati alla crescita del pensiero sempre in altri luoghi, la pensa diversamente con molta probabilità. Voglio una società più ricca purché sia diversamente ricca. Aveva ragione da vendere Riccardo Lombardi. Il suo socialismo riformista rappresentava lo sbocco possibile di un capitalismo dal volto umano. Era così tirchio che quando seppe dei saldi alle Pompe funebri, si suicidò. La nostra immarcescibile “Questione Meridionale”.