La Lega resta un carrozzone claudicante e costoso, un ente autoreferenziale che si limita all’ordinaria amministrazione. Il suo presidente, ben remunerato, non ha presentato al Consiglio Federale una sola proposta di riforma. Nessuna idea per ridurre i costi, per favorire le aggregazioni, per rilanciare la competitività. Il nulla, remunerato
Rivoluzione mancata: la Lega Pro raffigura il declino del professionismo italiano. Nel mondo del calcio, la terza serie dovrebbe rappresentare il cuore pulsante del sistema, il punto d’incontro tra la passione popolare e la dimensione professionistica. Dovrebbe. Perché oggi la Lega Pro è diventata il simbolo di un modello in agonia, dove la retorica della “formazione dei giovani” e del “territorio” non basta più a nascondere la realtà: un campionato mal organizzato, economicamente insostenibile e sportivamente falsato.
Il principale compito di una Lega, lo ricorda lo stesso Statuto, all’articolo 1 n.3 lettera B, è quello di organizzare il campionato di competenza nel rispetto delle norme federali e delle Noif, assicurandone regolarità, equilibrio e tutela delle società. È la principale delega che la Federcalcio affida alle Leghe: un mandato chiaro, che richiede vigilanza, responsabilità e capacità di visione.
Eppure, quanto sta accadendo in Lega Pro, sotto la presidenza di Matteo Marani, mostra il contrario. Le molteplici penalizzazioni, solo ultime in ordine di tempo, di Rimini e Triestina, il recente deferimento del Trapani per irregolarità amministrative, sono solo i più recenti episodi di una lunga serie che rivela un fallimento di sistema.
Quando più club finiscono ogni anno travolti da problemi economici, vuol dire che chi doveva controllare all’ingresso e monitorare durante la stagione non ha vigilato. E se le classifiche finali risultano falsate, come già accaduto in passato con Turris, Taranto, Lucchese, allora è la credibilità stessa del torneo a venire meno.
Il punto è semplice: la Lega Pro non è più sostenibile. Sessanta società professionistiche, molte delle quali con bilanci fragili e strutture amatoriali, sono un’anomalia tutta italiana. Continuare a chiamare “professionisti” giocatori che guadagnano meno di 30 mila euro lordi l’anno è una forzatura giuridica e una macroscopica menzogna economica.
Occorre il coraggio di ripensare il modello: riduzione dei club, introduzione di contratti di apprendistato, status dilettantistico per i calciatori con redditi minimi. È l’unica via per un campionato realmente sostenibile, competitivo e coerente con la realtà del Paese.
Invece, la Lega resta un carrozzone claudicante e costoso, un ente autoreferenziale che si limita all’ordinaria amministrazione. Il suo presidente, ben remunerato, non ha presentato al Consiglio Federale una sola proposta di riforma. Nessuna idea per ridurre i costi, per favorire le aggregazioni, per rilanciare la competitività. Il nulla, remunerato.
A questo punto non si tratta più di polemica, ma di necessità istituzionale. La Lega Pro ha tradito i propri scopi statutari. Ha perso la fiducia dei club e del pubblico. Ha bisogno di un commissariamento serio, che rimetta ordine nei conti, riveda i criteri di ammissione e, soprattutto, apra la strada a una riforma strutturale del sistema professionistico italiano.
Il calcio italiano non può più permettersi di ignorare la realtà: la terza serie, così com’è, non regge. E chi oggi ha la responsabilità di guidarla non può continuare a nascondersi dietro comunicati e convegni. Servono decisioni, riforme e una visione. Finché la Lega Pro resterà ferma, anche il calcio italiano resterà fermo.


