Dati pesanti come macigni quelli che emergono dal rapporto SVIMEZ “Un Paese, due cure” sulla sanità italiana: al Sud si investe poco e male nella sanità, col risultato che l’aspettativa di vita è più bassa di un anno e mezzo rispetto al Nord, la mortalità per tumori è più elevata, specie per le donne, e continuano le dispendiose fughe verso le strutture sanitarie centro-settentrionali, nella speranza di cure migliori
Un Paese, due cure: il titolo che SVIMEZ ha assegnato all’ultimo rapporto sul profondo divario esistente tra Nord e Sud nel sistema sanitario italiano rende chiaramente l’idea della situazione attuale.
I dati sono schiaccianti, pesanti come macigni.
Il quadro che emerge dal rapporto è fosco: “Al Sud – scrive Luca Bianchi, direttore generale della SVIMEZ – i servizi di prevenzione e cura sono più carenti, minore la spesa pubblica sanitaria, più lunghe le distanze da percorrere per ricevere assistenza, soprattutto per le patologie più gravi”.
Le peggiori condizioni di salute, infatti, secondo gli indicatori BES (Benessere Equo e Sostenibile) sulla salute, si trovano nella parte meridionale del nostro Paese.
Il risultato? Al Sud si vive, in media, un anno e mezzo di meno.
Il “differenziale territoriale” degli indicatori relativi alla speranza di vita è “marcato e crescente negli anni“: nel 2022 la speranza di vita alla nascita per i cittadini meridionali era di 81,7 anni, ovvero 1,3 anni in meno del Centro e 1,5 anni in meno del Nord-Ovest.
Le cause di questa discrepanza inaccettabile? Da un lato, un bilancio nazionale sanitario che “non copre integralmente il costo dei LEA, ovvero di quelle prestazioni e servizi che dovrebbero essere offerti in quantità e qualità uniformi in tutto il territorio nazionale“.
Dall’altro, una distribuzione regionale delle risorse “basata su dimensione e struttura per età della popolazione, che non rispecchia gli effettivi bisogni di cura e assistenza dei diversi territori, condizionati anche da fattori socio-economici non contemplati nei criteri di riparto“.
La conseguenza, oltre ad un peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini del Mezzogiorno, è il perpetrarsi dei cosiddetti “viaggi della speranza”, ovvero quelli che SVIMEZ definisce vere e proprie fughe verso strutture sanitarie presenti al Nord e al Centro, in particolare per le patologie più gravi.
Anche in questo caso, sono i dati presenti nel rapporto a rendere più chiaro il concetto: nel 2022, dei 629 mila migranti sanitari il 44% era residente in una regione del Mezzogiorno.
LA SPESA SANITARIA ITALIANA
Se tra il 2010 e il 2019, in Italia la quota di PIL destinata alla spesa sanitaria pubblica corrente è stata in media del 6,6% (in linea con Spagna e Portogallo ma sensibilmente inferiore a Regno Unito, Germania e Francia), tra il 2010 e il 2019, le risorse pubbliche sono diminuite di oltre il 2% (in netta controtendenza con ciascuno dei Paesi precedentemente citati). Nemmeno la pandemia da Covid-19 ha comportato un’inversione nel trend: l’aumento generalizzato della spesa pubblica sanitaria in Europa, ifatti, è stato più contenuto in Italia.
Un altro dato piuttosto significativo: quasi 1 euro su 4 della spesa sanitaria italiana è a carico dei cittadini, più del doppio di Francia e Germania.
Nel nostro Paese, insomma, la spesa privata non solo è aumentata dal 22 al 24% (201-2022) ma “si è sostituita alla spesa pubblica anziché aggiungersi, indebolendo le finalità di equità del SSN”.
La spesa sanitaria pubblica per cittadino è più bassa al Sud: a fronte di una media nazionale di 2.140 euro, la spesa corrente più contenuta si registra in Calabria (1.748 euro), seguita da Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro).
Infine, è chiaro che il bisogno di cura presente in zone del Mezzogiorno più povere economicamente rispetto al Nord sia maggiore: un fattore, questo, scarsamente tenuto in considerazione nella ripartizione regionale delle risorse.

“Correggere il metodo di riparto regionale del finanziamento della sanità – si legge nel rapporto – sulla base degli indicatori di deprivazione rafforzerebbe le finalità di equità del SSN, specie alla luce del calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione che, in futuro, penalizzeranno ulteriormente il Sud”.
Anche i SSR nel Mezzogiorno, infatti, sono più scadenti: la Puglia , tuttavia, come già anticipato in precedenza dal presidente Emiliano, è una delle poche regioni meridionali a risultare adempiente nei confronti dei LEA.
PREVENZIONE E MORTALITA’ ONCOLOGICA
Come visto in precedenza, le fughe più numerose dei cittadini meridionali verso le strutture sanitarie d’eccellenza del Nord e del Centro si verificano in concomitanza con il presentarsi di gravi patologie, come quelle oncologiche: è la Calabria a registrare l’incidenza più elevata di migrazioni, con il 43% dei pazienti che si rivolge a strutture sanitarie di Regioni non confinanti. Seguono Basilicata (25%) e Sicilia (16,5%).
La Puglia, poi, con 2.249 pazienti oncologici in viaggio verso la sanità settentrionale e 869 attratti verso le proprie strutture sanitarie, presenta un saldo negativo di -1.380 pazienti, costretti a sobbarcarsi i costi aggiuntivi dei viaggi e dell’alloggio in strutture lontane da casa.
Nel caso del tumore al seno, per esempio, la nostra regione presenta un indice di fuga verso altre strutture extra pugliesi del 17%, contro un indice di attrazione del 6%, consistente soprattutto in pazienti oncologici provenienti dalla vicina Basilicata.
Il SSR dell’Emilia-Romagna, ad esempio, fornisce cure a circa 2.000 malati oncologici non residenti, provenienti principalmente da Marche (26%), Veneto (14%), Abruzzo (11%) e Puglia (9%).

Come naturale quanto agghiacciante conseguenza di quanto appena esposto, la mortalità oncologica al Sud è più elevata: il tasso di mortalità per tumori nei cittadini di età compresa tra 20 e 64 anni, infatti, è del 9,6% per gli uomini che vivono al Mezzogiorno, contro l’8,3% del Nord-Ovest e del Centro e il 7,6% del Nord-Est.
Anche per le donne residenti al Sud e affette da patologia tumorale il tasso di mortalità è dell‘8,2% rispetto al 7,2% del Nord-Ovest e addirittura 6,6% al Nord-Est. Da notare, poi, che il tasso di mortalità femminile per tumori, in dieci anni, al Sud non ha subito grosse variazioni, come accade invece nel resto d’Italia.
“In definitiva – conclude lo SVIMEZ – investire in Sanità dovrebbe tornare tra le priorità nazionali, correggendo il metodo di riparto regionale del Fondo Sanitario Nazionale sulla base degli indicatori di deprivazione”.
Una situazione al limite, quindi, quella della sanità italiana divisa su due fronti, in cui “l’autonomia differenziata rischia di ampliare le disuguaglianze nelle condizioni di accesso al diritto alla salute”.