di Fabio Ranucci / pubblicato su “Conquiste del Lavoro” del 21 giugno 2025
A cento anni dalla nascita, il ritratto di Giovanni Spadolini: storico rigoroso, giornalista brillante, politico visionario e custode del Risorgimento italiano
La vita di Giovanni Spadolini, che era nato il 21 giugno di cento anni fa, si può racchiudere in una sola parola: Storia. E quella del Risorgimento nessuno la conosceva meglio di lui.
Egli, consapevole del fatto che ci sono i più svariati modi di scriverne, leggibili e illeggibili, e che da questi può derivare il maggiore o il minore interesse del lettore per le opere in cui si raccontano personaggi e si ricuciono le trame di vicende del passato, aveva lavorato alacremente fin dall’inizio per diventare uno storico rigoroso e leggibile.
In lui maturarono gradualmente, di pari passo, due grandi passioni. Quella del giornalista e quella dello storico. Che lo accompagnarono fin da ragazzo. Aveva solo otto anni quando il padre gli regalò una biografia di Garibaldi con una dedica profetica e allo stesso tempo affettuosa: “A Giovanni, piccolo storico”. E ne aveva venticinque quando conquistò una cattedra universitaria e quaranta all’arrivo sulla vetta più alta e ambita, la direzione del “Corriere della Sera”, dopo essere stato per tredici anni al vertice di un’altra gloriosa testata, “Il Resto del Carlino”. E aver collaborato tra l’altro prima al “Messaggero” di Mario Missiroli e poi al settimanale “Il Mondo” di Mario Pannunzio.
Dotato di una memoria fuori dal comune, di grande capacità di sintesi e di eccezionale rapidità di scrittura, era un lavoratore instancabile. Spesso scriveva gli articoli di fondo appuntando poche parole su fogli di carta nel breve percorso ferroviario tra Firenze, dove era nato e viveva, e Bologna, sede del “Carlino”.
Giornalista e storico, certo, ma con un legame profondo tra i due ruoli, dimostrato dal suo amore per la politica e la ferma volontà di unire cultura e impegno civile. Che lo portarono a uscire dalle stanze di via Solferino per entrare nelle aule istituzionali, eletto nelle file repubblicane. Da dove, negli anni trascorsi da segretario del Pri, da ministro, da primo presidente del Consiglio non democristiano e, successivamente, del Senato, aveva visto in anticipo il tramonto di una stagione politica, pensando però a un qualcosa di ben diverso rispetto all’avvento dell’improvvisato bipolarismo italiano.
Era il 1984 quando, nella sua relazione al congresso del Pri di Milano, si chiese: “Quali nuove prospettive si aprirebbero per la democrazia italiana nel momento in cui si venissero finalmente ad allentare i collanti ideologici che hanno dominato un trentacinquennio di vita repubblicana? E dove si indirizzerebbero le grandi energie, morali e civili, compresse e ingabbiate dagli opposti confessionalismi, nel momento in cui potessero liberamente sprigionarsi?”. In quell’occasione indicò ai repubblicani l’eventualità di un “partito della democrazia”, a beneficio di tutti coloro che guardavano a un futuro dominato da una “grande democrazia industriale avanzata dal respiro europeo”, in grado di respingere “gli schemi classisti, al pari delle seduzioni dell’assistenzialismo e del corporativismo”.
Proprio in questi giorni è uscita una scrupolosa e dettagliata biografia, “Giovanni Spadolini. L’ultimo politico risorgimentale”, scritta da Federico Bini e Giancarlo Mazzuca con la prefazione di Lamberto Dini ed edita da Rubbettino (pagg. 202, euro 16) che, partendo dal “giovane gobettiano”, arriva fino ai suoi ultimi giorni, a “un mondo in frantumi”. Alla bufera di Tangentopoli che allontanò tanti cittadini di buona volontà dal mondo politico, accentuando il distacco tra governanti e governati, tra gente comune e coloro che ne avevano tradito la fiducia.
Dal canto suo, immune com’era da sospetti, accuse e scandali vari, sin dall’inizio delle inchieste giudiziarie dimostrò che non poteva accostarsi alla condanna di un’intera classe politica senza correre il rischio di scivolare nella pericolosa retorica del tempo ormai trascorso. Piuttosto da storico, privo di ambiguità e di ripensamenti, si adoperò affinché il cittadino non credesse che il Paese fosse incapace di risollevarsi. Del resto, non c’era da reagire solo agli effetti di “Mani pulite”. Perché ancora più pericoloso era l’orientamento a rimettere in discussione l’unità nazionale. Ci voleva, pensò, una nuova assunzione di coscienza. E per questo lavorò per non disperdere la fatica e l’esempio di quegli “uomini che fecero l’Italia”. Ponendo l’accento su un’altra questione per dimostrare come tra i grandi costruttori di una nazione unita e indipendente vi fossero, oltre agli uomini politici, anche, e forse soprattutto, altre menti eccelse: educatori, storici, letterati, poeti e i tanti che operarono fin dalla metà del Settecento. Per comprenderlo, basti esaminare i suoi studi in cui emergeva, ad esempio, il patriota Ugo Foscolo sofferente per i popoli oppressi.
La politica, gli impegni istituzionali: le sue giornate erano piene di lavoro, eppure riusciva a trovare il tempo di dedicarsi alla scrittura, di rinchiudersi nella sua biblioteca a Pian dei Giullari, sulla collina fiorentina dei poeti. Dove probabilmente si nascondeva, tra libri, statuine in biscuit, cimeli garibaldini e risorgimentali, anche la sua anima di collezionista. E quando scriveva, più che rivolgersi ai colleghi professori, preferiva guardare al grande pubblico. Evitando le classiche note a piè di pagina o i dotti richiami tipici dei testi accademici. Principalmente perché, col suo impegno di storico, voleva favorire il collegamento fra i lettori più giovani e la storia dei loro avi.
Oggi in tanti, soprattutto negli studi, provano a seguire le sue orme. Di “un italiano” che seppe guardare a un “Tevere più largo” quando intravide per primo, nell’ormai lontano 13 settembre 1958, pubblicando su “Il Resto del Carlino” l’articolo di fondo con quel significativo titolo, l’opportunità di avviare una nuova epoca caratterizzata dalla distensione nei rapporti fra le due rive del fiume capitolino, la cattolica e la laica.