Il paradosso più evidente però è quello delle tre Leghe “professionistiche”, un unicum tutto italiano che non trova eguali in Europa: 100 società iscritte tra Serie A, B e Lega Pro. Sessanta club di terza serie sono un’enormità ingovernabile, soprattutto perché la maggior parte non ha la solidità necessaria per reggere un modello di gestione professionale
Riformare per sopravvivere, il calcio italiano è davanti al bivio definitivo. C’è un punto oltre il quale non è più possibile fingere che vada tutto bene. Il calcio italiano ci è arrivato da tempo, superato e (ri)superato senza accorgersene, continuando a trascinarsi in avanti sostenuto da rituali vuoti, slogan d’occasione e un immobilismo che oggi presenta il conto. Il sistema è alla deriva, e a differenza del passato, non esistono più margini per rinviare riforme che, se fossero state avviate dieci anni fa, sarebbero apparse drastiche, oggi sono semplicemente indispensabili.
Il problema parte dal basso, o meglio da ciò che del “basso” non ha più nulla: un mondo dilettantistico nel nome, ma professionistico nei costi, nei contratti e nelle pretese economiche. In Serie D, come in Eccellenza, circolano ormai stipendi che superano cifre da capogiro, persino a sei zeri, sostenuti da società che non ne avrebbero neppure lontanamente la capacità finanziaria. Una spirale che da anni prepara fallimenti e rinascite fittizie, alimentando una distorsione che inquina tutta la filiera.
Il paradosso più evidente però è quello delle tre Leghe “professionistiche”, un unicum tutto italiano che non trova eguali in Europa: 100 società iscritte tra Serie A, B e Lega Pro. Sessanta club di terza serie sono un’enormità ingovernabile, soprattutto perché la maggior parte non ha la solidità necessaria per reggere un modello di gestione professionale. Le ricorrenti penalizzazioni, le difficoltà nel concludere i campionati, il continuo ricorso a espedienti amministrativi: tutto indica un sistema che vive sopra le proprie possibilità.
La sostenibilità economica, da anni evaporata, è diventata una parola che in Lega Pro non significa più nulla. È tempo di restituirle senso attraverso una riforma profonda, non cosmetica. La proposta più razionale e forse l’unica ancora praticabile, è la riduzione delle Leghe professionistiche da tre a due, con un organico complessivo di 54 club: 18 in Serie A e 36 in Serie B, divisa in due gironi da 18. Tutto ciò che sta sotto deve tornare ad essere dilettantismo autentico, con regole chiare, contratti coerenti e un modello sostenibile.
Si potrà continuare a chiamarla Serie C, certo, ma dovrà essere una categoria dilettantistica nell’inquadramento dei tesserati, con un tetto agli ingaggi, garanzie fideiussorie obbligatorie e la possibilità di accedere alle agevolazioni fiscali previste per il settore dilettantistico. Altrimenti la recita continuerà, con i costi del professionismo e le entrate del dilettantismo. Un ossimoro finanziario che coincide esattamente con la situazione attuale.
Non è solo questione di regolamenti: è questione di responsabilità. La Lega Pro, sostenuta da anni dalla Federcalcio grazie ai proventi della Legge Melandri, non può illudersi di perpetuare all’infinito un modello che vive ormai di sussidi. Se la governance attuale continuerà a difendere lo status quo, ignorando la necessità di un cambiamento radicale, non sarà illogico che la Federcalcio avvii una revisione drastica dei contributi. Non si può finanziare l’insostenibile.
Ma il discorso riguarda tutti. Anche in Serie B la crisi è evidente, strutturale, irreversibile. E se in Serie A il livello rimane più alto, il sistema nel suo complesso è talmente fragile da rendere sempre più devastante il passaggio da una categoria all’altra. Le retrocessioni generano terremoti economici che nessun modello virtuoso può assorbire, e questo indica chiaramente che il problema non è episodico, ma sistemico.
Ecco perché la riduzione degli organici, che in altri Paesi è già realtà o materia di analisi avanzata, non può più essere tema da rimandare, né pretesto per schermaglie politiche interne. L’Italia è ancora una volta l’ultima della fila, appesantita da una cultura conservatrice che guarda al proprio orticello, alla propria poltrona, alle proprie rendite di posizione. Ma stavolta non c’è più spazio per freni, veti incrociati o resistenze corporative.
Entro dicembre Gabriele Gravina porterà in Consiglio Federale una proposta di riforma complessiva. Sarà un passaggio decisivo, a cui nessuna componente potrà sottrarsi. È il momento in cui il sistema deve scegliere se vuole sopravvivere o se preferisce continuare a fingere finché lo “squascio” finale, l’implosione totale, non diventerà inevitabile.
Per il bene del calcio italiano, è fondamentale che nessuno si metta di traverso. Perché questa volta non si tratta più di cedere qualcosa: si tratta di salvare tutto. E se qualcuno sceglierà ancora di guardare al proprio giardino invece che all’interesse collettivo, sarà impossibile stupirsi quando arriveranno gli estremi rimedi. Perché il tempo delle scuse è finito. Ora resta solo il tempo delle decisioni.


