Quell’incontro fortuito al funerale di Alessandro Leogrande. E quel messaggio che, il grande critico cinematografico scomparso l’altro ieri, volle consegnarmi. Anche a proposito dell’arte tragica che, noi tarantini, avremmo nel sangue
Conobbi Goffredo Fofi ai funerali di Alessandro Leogrande. Piangeva l’amico, il figlio adottivo, il giovane intellettuale al quale aveva affidato anni prima la vicedirezione della rivista “Lo straniero”, fuori dalla grande chiesa di Corso Italia. Se ne stava appartato. Quasi a voler celare nell’ombra della riservatezza il proprio dolore. Terminate le esequie, mi feci coraggio e mi avvicinai per salutarlo. Durante l’anno e mezzo della mia direzione alla Voce del Popolo avevo chiesto ad Alessandro di collaborare alla rivista fondata dai fratelli Rizzo. Lui accettò con entusiasmo il mio invito. Nacque tra noi un’amicizia sincera, un rispetto leale. Discutevamo di Taranto, di giornalismo, di libri, di politica, lui troppo magnanimo nel giudizio su Vendola e la sua esperienza di governo in Regione, io più caustico. Lui di una sinistra di matrice comunista, io più riformista. Avevamo parlato di Goffredo Fofi, assieme, tante volte: “Il maestro”, come era solito chiamarlo Alessandro. Mi sembrava di conoscerlo, pur non avendolo mai incontrato in vita mia.
Il grande critico cinematografico, pedagogista degli ultimi, agitatore culturale e fustigatore di una sinistra nella quale affermava non riconoscersi più, mi disse: “Voi tarantini avete la tragedia, quella insegnataci dai greci, nel sangue”. Gli risposi, con sfrontatezza, che non difettavamo neanche nell’altro genere. Quello speculare al primo: la commedia. Riuscii a strappargli un sorriso, nonostante il momento e la circostanza drammatica. Ricordammo per qualche minuto ancora Alessandro e, prima di salutarci, con il timbro professorale del suo eloquio frenetico mi consegnò un messaggio. Un’istantanea che serbo ancora con me: “Si ricordi, lei che vuol fare il giornalista, che l’informazione è la forma pornografica del sapere. Manca di quell’interiorità che contraddistingue la conoscenza”. M’interrogai – e m’interrogo tutt’ora – su quella espressione. Un monito irrinunciabile. Oggi che Goffredo non c’è più, che Alessandro non c’è più, coltivo il privilegio degli incontri straordinari. Che solo la vita, e la più bella professione al mondo, possono regalarti.