Francesco (Forte) era un’economista eretico. Un giornalista brillante. E un polemista refrattario alle ovvietà dei salotti televisivi. Metà intellettuale e metà politico, leggerlo era una goduria
Rendere allegra la “scienza triste” è stata sempre una sua prerogativa e suggestione. L’orizzonte ultimo del proprio peregrinare ideale. Con Francesco Forte l’economia si scrollava di dosso l’allure della perfettibilità seriosa per divenire analisi competente. Ragionamento arioso. Pensiero laterale. Accessibile ai più. Senza alcun infingimento e pratica surrettizia. Tanto che si leggesse un suo saggio, quanto che s’imparasse a memoria un articolo vergato per i tanti giornali con i quali collaborava. Metà intellettuale e metà politico, una sorta di ircocervo dell’intelligenza critica. Mai incline nell’abbracciare il banale con il suo carico di ovvietà. Nel mondo accademico, quello che ostenta una certa puzza sotto il naso, che frequenta i salotti e si tiene alla larga dai pericoli – e le opportunità – della strada, che capisce non capendo il senso coevo della storia, veniva bollato come un teorico eterodosso. Nel significato che, a questa espressione, un’Italia provinciale per quanto incagliata nel ventre molle della Guerra Fredda, era solita ricorrere. Un anatèma che colpiva a morte chi non si schierava con i due partiti-chiesa del momento che, al pari dei ladri di Pisa, litigavano di giorno per poi fare affari, assieme, di notte.
Sbaglia chi definisce Francesco Forte un socialdemocratico, un socialista ossequioso verso il progressismo. Ciò che lo interessava, in realtà, era altro. Qualcosa che si potesse muovere con fare fluido, spedito, verso la civiltà del riformismo. Il riformismo delle buone maniere e dei tanti neuroni da dispensare nel dibattito pubblico pur di costruire una società più libera e giusta. Migliore. Inclusiva. All’Ocse, al Fmi, da ministro della Repubblica con i governi Fanfani e Craxi, come sindaco della sua Bormio, in provincia di Sondrio, nella veste di professore che sostituì Enzo Vanoni all’Università di Milano, Forte restava fedele a se stesso. Agit-prop dell’intelligenza coraggiosa. Affinché si rendesse concreta per quanto possibile, senza che qualcosa s’inceppi per dirla con le parole di Norberto Bobbio, la dialettica tra ideali e rozza materia.