Intervista esclusiva a Vito Messi, candidato alla presidenza dell’associazione che raggruppa le imprese edili. “Ho chiesto al mio sfidante di ritirarsi, arrivare ad una conta segnerebbe una sconfitta per tutti alla fine. Fare il presidente di Ance è un impegno a termine. Nel nostro Paese il settennato è prerogativa del solo inquilino del Quirinale”
Vito Messi, lei concorre alla carica di prossimo presidente dell’Ance di Taranto? L’associazione che raggruppa le imprese edili.
“Si, sono stato per ben due volte vicepresidente dell’Ance. Adesso vorrei misurarmi con un ruolo che non contempli più alcun prefisso (ride, ndr)”.
Quando ci saranno le elezioni?
“Avremmo in realtà già dovuto votare, comunque non si andrà oltre il mese di luglio. Terminata la consultazione dei saggi, verrà convocata l’Assemblea. E, subito dopo, si potrà procedere con l’indicazione del nuovo presidente”.
Il presidente uscente, Fabio De Bartolomeo, vorrebbe restare al suo posto per un altro mandato.
“Fare il presidente di un’associazione è altra cosa che prendere un posto di lavoro. Non sono cariche, queste, che durano una vita intera. Si tratta d’impegni a termine. Meno male, mi verrebbe da dire. Senza rotazione, apertura verso idee e sensibilità differenti, si rischia di azzoppare il principio democratico dell’alternanza. Fabio è stato per quattro anni, gli ultimi, presidente dell’Ance. E prim’ancora ha ricoperto, per ben due mandati, il ruolo di presidente di Formedil. Siamo, nel suo caso, abbondantemente oltre il settennato del Presidente della Repubblica…”.
Lei ha invitato lo stesso De Bartolomeo a ritirare la sua candidatura. Perché?
“Perché arrivare ad una conta segnerebbe, alla fine, una sconfitta per tutti. Per le imprese, per l’Ance, per l’immagine che restituiremmo del nostro mondo all’esterno. Abbiamo, invece, bisogno di ricercare unità e scelte condivisibili. Propositi alti e programmi spendibili. Quando non è il gruppo a primeggiare, ma il singolo, significa che più di qualcosa non funziona o comunque non ha funzionato”.
Cosa lamenta della gestione di questi anni dell’Ance?
“E’ mancata una gestione collegiale dell’associazione. Registriamo, inoltre, il minimo storico delle aziende iscritte. Non più di una quarantina, alla fine. Un numero troppo esiguo per la storia e le potenzialità dell’area tarantina. L’Ance non è questa, non può essere questa. Il nostro peso specifico dovrà essere diverso nel prossimo futuro”.
Nel suo programma c’è una critica a quello che è un limite italiano, e non solo tarantino, del nostro sistema industriale: il nanismo produttivo.
“Si, è vero. Mi fa piacere che lei abbia colto questo punto per me molto importante. Direi quasi dirimente. L’espressione ‘piccolo è bello’ ha un suo significato romantico, ma per fare impresa i numeri sono più importanti dei sentimentalismi. I bilanci vengono prima delle chiacchiere al bar. Prenda Taranto, la nostra città. E’, e sarà sempre più nei prossimi anni, una delle più significative stazioni appaltanti del Mezzogiorno. Se vogliamo raccogliere la sfida che ci viene lanciata abbiamo bisogno d’imprese grandi, ben strutturate, lontane dallo stereotipo del nanismo industriale italiano. Serve, altresì, un Ance che non si chiuda a riccio sulle prerogative di qualcuno. Più compatta, plurale, estesa alla partecipazione di tutti”.
C’è chi derubrica la sua corsa alla presidenza di Ance come una contesa tra la città capoluogo e i comuni della provincia.
“Faccio fatica, mi creda, a stare dietro queste logiche. Io che vengo della provincia sento di essere tarantino al pari di chiunque altri. L’orgoglio dell’appartenenza travalica gli slogan del momento, gli opportunismi segnati da una buona dose di furbizia. Offro la mia disponibilità a presiedere l’Ance perché con la mia esperienza, e con quella dei tanti amici che mi sostengono, vogliamo far contare di più le aziende del territorio. Non andrà nutrito più alcun complesso d’inferiorità verso i grandi gruppi che arrivano da fuori. Organizzati e strutturati, il perimetro del successo è possibile segnarlo a partire da queste due parole”.