Il nuovo ospedale di Taranto senza un polo universitario che possa nascere affianco, nelle stesse aree, rischia di tramutarsi in un’infrastruttura monca. Insufficiente. Bisogna reperire 28 milioni di euro. I nostri scienziati della politica muovessero il culo una volta tanto
Da solo il nuovo ospedale di Taranto, il San Cataldo, non basta. Non può bastare. Rischia di rivelarsi un’infrastruttura monca. Insufficiente. Parziale. Limitata – e limitante – sin dal suo atto di nascita. Un ospedale che nutre ambizioni da Policlinico, il più grande nosocomio di Puglia alla prova dei fatti, non può non contemplare al suo interno un polo universitario e la ricerca d’eccellenza. Le aree per farlo nascere ci sono già, furono individuate a suo tempo. Ciò che mancano sono le risorse finanziarie, una spesa di circa 28 milioni di euro da tirare fuori. Da ricercare nelle voci di bilancio della Regione e del Ministero della Salute. Da chiedere al prossimo commissario europeo, Raffaele Fitto. Affinché possa completarsi il lavoro avviato, l’opera fatta partire appena tre anni fa. Diciamolo senza infingimenti, come nostra consuetudine e costume: la facoltà di Medicina ubicata nella sede dell’ex Banca d’Italia fa ridere. E’ inadeguata. Oltre l’affaccio sulla rada di Mar Grande, su uno dei più suggestivi lungomari italiani, non sa andare. Tutte le università ospedaliere (lo dice il nome stesso) sorgono affianco agli ospedali, nell’ambito delle corrispettive aree di riferimento.
I grandi ospedali pubblici lombardi, figurarsi, cedono ai privati, dietro corrispettivo economico, le proprie aule e sale conferenze. Monetizzano sulla carenza cronica di spazi di questa fattispecie nel nostro Paese. Perché, quindi, non farlo anche a Taranto? Con il San Cataldo? Perché non chiudere un cerchio che rischia di rimanere erroneamente aperto? Ricerca. Sviluppo. Innovazione. Non vogliamo dall’Ospedale la salute. Ci accontentiamo di molto meno. Che gli scienziati che ci rappresentano dicano, per esempio, come fare a reperire i 28 milioni di euro mancanti. In tempi di stesura di leggi di bilancio, gli economisti parlerebbero di una spesa pubblica di qualità. Una volta tanto.