L’agghiacciante scelta di trasformare “Il Canto degli Italiani” nella tappa di un contest per cantanti neomelodici lascerà nelle menti degli sfortunati spettatori ferite che difficilmente il tempo potrà lenire
God Save Us. Al bando il rigido protocollo targato Windsor, fuori dal campo visivo, e non solo da quello, Re e Regine perché al di là di quanto successo sul rettangolo di gioco, quelli da salvare stavolta siamo noi. Poveri, popolani ma sopratutto italiani.
Non tutti e sessanta milioni sia chiaro, perché ad avere bisogno di urgente sostegno adesso, sono i 7.151.000 spettatori (33% di share, ndr) che ieri prima della sfida del San Paolo (non ce ne voglia l’amico Diego, ma con i santi, come da proverbio è sempre meglio non scherzare) sono stati costretti, tra incredulità e vergogna a portar giù con le mani il sopracciglio “ancelottesco”, a stropicciarsi gli occhi e poi a tapparsi le orecchie.
La Crusca non ci ha ancora pensato, ma lo farà presto. Nel frattempo mi sento di suggerire l’equilibrata commistione tra imbarazzo, vilipendio e squallore per rappresentare nella maniera più fedele alla realtà, il teatrino andato in scena al posto della solenne esecuzione degli inni nazionali.
Mano in tasca, beat tamarro ma ignorantemente coinvolgente, richiamo al battito di mani ed aria svagata che nemmeno al celeberrimo “Castello delle Cerimonie”. Questo “l’outfit” con il quale l’emblema del “nazionalpopolare di fine anni novanta”, Gigi D’Alessio, ha inteso, assieme al complice Clementino, uccidere il Canto degli Italiani, prendendo a calci il limite minimo imposto dalla decenza, cancellando in un minuto scarso secoli di storia e trasformando le note pregiate ed insanguinate che furono dell’Unità d’Italia nella festa patronale del Comune di Scisciano (Respect).
Ora, al netto dell’evidente declino dell’italico pallone, dopo l’esclusione dagli ultimi due Mondiali, da uomini feriti tutto ci saremmo meritati, all’infuori del vile arrangiamento in salsa neomelodica di una certezza, quale l’inno nazionale.
L’inno attraversa storie familiari, epoche, ricordi, classi sociali e momenti del Paese, sportivi e non. L’inno, paradossalmente, ma come nella migliore tradizione della nostra nazione, a volte ha diviso, ponendo su due corridoio paralleli quelli che ancora cantano “Giovinezza”, con quelli che invece sognano “Bella Ciao”. L’inno ci ha fatto incazzare, quando i nostri calciatori non lo cantavano, per ignoranza, più che per scelta. L’inno ci ha fatto emozionare, quando lo abbiamo insegnato ai nostri figli.
Era il nostro inno, con la banda e la bandiera e lo cantavamo noi, mentre Gigi aspettava le sue nevose domeniche d’agosto. E forse, alla fine, era meglio così.