di Vittorio Galigani
Dopo gli spareggi di Napoli, con alcuni innesti, il Taranto avrebbe potuto puntare alla serie A. Ma, ieri come oggi, il calcio rossoblu è stato sempre relegato nella terra di mezzo dei sogni che gareggiano con la necessità di fare cassa
Fine febbraio 1987. Taranto in serie B ultimo in classifica. La squadra era stata ben costruita dalla “buonanima”, il compianto Tom Rosati. Spiccavano i nomi dei giovani Maiellaro, De Vitis Biondo, Picci, Paolucci. L’esperienza di Paolinelli e Donatelli. La tecnica di Dalla Costa. Il vecchio Tom, colpito dal peggiore dei mali, fu prematuramente costretto ad abbandonare. Venne sostituito “Mimmo” Renna.
Un girone d’andata disastroso, furono incamerati soltanto undici punti. La situazione stava precipitando. La “chiamata” di Nicola Bruni, allora vice presidente di Vito Fasano, arrivò inaspettata. La squadra fu affidata a Nando Veneranda che mi precedette a Taranto di poche settimana.
I ragazzi reagirono alla grande. Fu un girone di ritorno con risultati da primato. Recuperammo con un crescendo impressionante. Maiellaro illuminava il gioco e la curva cantava in coro “oh mamma me batte el corazon, sai perché… ho visto Maiellaro…”. Totò De Vitis era un cecchino spietato, mise a segno 18 gol. L’ultima della stagione regolare, la giocammo in campo neutro a Lecce, battemmo con un rotondo 3 a 0 il Genoa che nutriva ambizioni di primato. Lanerossi Vicenza, Catania e Cagliari erano già state retrocesse. Chiudemmo in classifica al quart’ultimo posto, appaiati a Lazio e Campobasso. Per decidere la quarta, che doveva scendere in C, furono necessari gli spareggi. Sede designata Napoli. L’allora San Paolo fu indicato come lo stadio più idoneo.
Esordio contro la Lazio il 27 giugno. Spalti gremiti, si mosse tutta la città in treno, in auto, arrivarono a Napoli anche 17 pullman. Sugli spalti oltre 40 mila spettatori, in curva sud 10 mila tarantini. Uno spettacolo indescrivibile. Al ventesimo del secondo tempo, su una splendida conclusione di Dalla Costa, De Vitis appoggiò in rete una corta respinta di Terraneo. Il timore del fuori gioco scomparve in un attimo, che il guardalinee di sinistra, bandierina abbassata, stava già correndo verso il centro campo. Tullio Lanese convalidò senza esitazione alcuna.
Il primo luglio affrontammo, nella partita decisiva, il Campobasso. Nel primo tempo un giovanissimo Luca Evangelisti portò in vantaggio i nostri avversari, con un radente da fuori area, che beffò Goletti. La gara si tramutò in una rincorsa al pareggio, sino al 72mo, quando l’arbitro Paolo Bergamo fischiò una punizione, a nostro favore, sul limite dell’area avversaria. Proprio sotto la curva sud del San Paolo, gremita dai nostri tifosi. Sul pallone andò Sergio Paolinelli, uno specialista sui calci da fermo. Il coro di incitamento partì immediato “Sergio, Sergio, Sergio tira la bomba, tira la bomba…” e bomba fu! Paolinelli tirò fuori il Jolly, piegò le mani a Bianchi, che difendeva la porta avversaria e la palla si depositò docilmente in rete. I diecimila che gremivano gli spalti del San Paolo fecero “esplodere” la curva.
Eravamo finalmente salvi. Il miracolo si era avverato. L’entusiasmo generale era incontenibile. L’autostrada Napoli – Taranto fu invasa da un incessante, infinito sventolio di bandiere rossoblu. Nacque così la tradizione del bagno dei tifosi nella fontana di piazza Ebalia.
La squadra rientrò immediatamente in città. L’ingegner Fasano volle che restassimo in albergo, a Napoli, per una riunione programmatica di vertice. Lui, Nicola Bruni, il professor Merico (suo commercialista), l’ingegner Tartaglia ed il sottoscritto. Dissi in quella sede che con quella squadra, migliorata da un buon portiere, un difensore centrale ed un centrocampista (Peppe Donatelli soffriva da tempo di pubalgia) avremmo potuto lottare per la serie A. Mi fu risposto che bisognava fare cassa. Diversamente non ci saremmo potuti iscrivere. Bisognava “sacrificare” Maiellaro. Possibilmente anche De Vitis (riuscii a stento a trattenerlo per una ulteriore stagione, prima di girarlo all’Udinese).
Dopo due giorni festeggiammo la salvezza in una entusiastica piazza Garibaldi gremita dai nostri tifosi ed a seguire in Comune, ospiti dell’allora sindaco Mario Guadagnolo. Fu allora che mi innamorai di Taranto, dei suoi colori e del suo affetto. Ero stato accolto con grande entusiasmo.
Partii per Milanofiori, era periodo di calciomercato. Avevo già raggiunto l’accordo con la Roma. Nils Liedholm voleva a tutti i costi Maiellaro. L’ingegner Dino Viola, presidente dei giallorossi, voleva accontentarlo. Avevano già parlato con Pietro che avrebbe giocato in coppia con Giannini. Da parte mia avevo già raggiunto l’accordo economico sulla parola. Mancavano soltanto le firme.
Una telefonata dell’ingegner Fasano, abbandonato a se stesso dalla città e dalle Istituzioni, fece cadere tutto il “castello”. “Rientra a Bari con il primo aereo – mi disse – ti aspettano in aeroporto i Matarrese. Mi offrono più soldi e lavoro per la mia azienda. Non sono in grado di rifiutare. Convinci il ragazzo”.
Non fu un’impresa facile. Pietro si vedeva già con la maglia della Roma. Giocando nella capitale gli si potevano spalancare le porte della nazionale. Rimanemmo in sede a Bari per un giorno intero, Maiellaro era indeciso. Sbloccò la situazione una telefonata dell’ingegner Fasano. Spiegò a Maiellaro che se non avesse accettato non ci saremmo potuti iscrivere al campionato. Pietro all’inizio restio diventò in seguito il beniamino, coccolato da tutti i baresi.
Nell’operazione, miliardaria, furono inseriti anche Gridelli e Giorgio Roselli. Quest’ultimo dapprima contestato per la sua provenienza, divenne poi il benvoluto capitano della nostra squadra, disputando due ottimi campionati.
La notizia del trasferimento di Maiellaro al Bari fece rapidamente il giro della città, nel frattempo ero ripartito per Milano per completare la squadra. Un gruppo di tifosi, i più esagitati, prese di mira la nostra sede in viale Virgilio. Salirono al primo piano e distrussero tutto l’arredamento. Ignari della amara realtà, se la presero anche con Pietro, che non avrebbe dovuto accettare il trasferimento e poi con il sottoscritto.
Ero colpevole, secondo loro, di aver “venduto” il loro beniamino al Bari. Il nemico di sempre. Non sapevano che senza quei soldi il Taranto sarebbe “saltato”.