Nel giorno del sessantesimo compleanno di Pietro Maiellaro, CosmoPolis, si addentra in una riflessione sul gotha del pallone rossoblu. Il risultato? Un Dio, due intoccabili e pochi altri lampi di luce
Alla voce “Eroi del Calcio” alle nostre latitudini, appartiene solo una figura. Iconica, eterea per sua (e nostra) sfortuna, divenuta effigie di un popolo assorbendo ad imperitura memoria il profumo che ha l’inesplorato.
Iacovone, è fuori gara, forse non solo per meriti sportivi, ma perché apparso agli occhi della gente come raffigurazione esemplare del tarantino. Iacovone è uno che ha fatto a pugni col fato, perdendo terrenamente, ma reiventandosi a sua insaputa come immortale, quale figlio prediletto di questa terra che eccelle nell’arte del rimpianto, nell’esaltazione del “chissà cosa sarebbe successo, se…”.
La controprova non esiste, e questa autostrada verso la libera interpretazione del futuro sulla quale hanno viaggiato ed anacronisticamente viaggiano ancora tutti gli innamorati del Taranto, ha trasformato il riccioluto attaccante di Capracotta, nell’uomo dei sogni, nel cacciatore del nettare, ammirato nella vetrina del salone della casa degli Dei, e mai assaggiato, per colpa di un destino troppo crudele.
Un gradino sotto l’Olimpo, ci sono gli uomini. Occupano un bell’appartamento, un loft, vista canale navigabile, non è grandissimo ma tanto dentro, ci abita poca gente e ci si sta larghi. Mobili nuovi, divani usati poco, ci sono passati Riganò e De Vitis, c’è stato in fitto per qualche periodo Gianluca Triuzzi, un altro “che avrebbe potuto, ed invece…”, sotto nel gabbiotto c’è Gianpaolo, il portiere, ma la cosa che colpisce sono i due quadri sistemati simmetrici, paralleli, uno difronte all’altro, appesi nel corridoio d’ingresso.
Si dice raffigurino i padroni di casa: base verde, verde prato per essere precisi, scarpino nero, pallone di cuoio a pentagoni neri e bianchi, calzettoni, pantaloncini e “la dieci” sulle spalle. Uguali? No, non proprio, anzi diversi, così tanto da generare una dicotomia violenta, che separa ed identifica due generazioni, attigue, attaccate a livello temporale ma agli antipodi nel modo di intendere il calcio.
Quelli che Selvaggi e quelli che Maiellaro. Eh si, perché a Taranto, dove il tempo non esiste, che siano passati quarantaquattro anni dall’ultimo gol del “FrancoMundial” con la casacca rossoblu, o appena trentasei dalla fuga dello “Zar” nel baule di un’automobile, poco importa. La gente s’emoziona se gli chiedi di questi due qua. Il tifoso si lega a loro ed al ricordo di quel pomeriggio di pioggia, si fidelizza come nemmeno la raccolta punti della Coop, si attacca sul petto uno stemma e lo difende, quasi come un simbolo d’appartenenza.
Nel giorno del sessantesimo compelanno di Pietro Maiellaro, avremmo voluto tracciare una linea, rendere giustizia una volta per tutte, chiarire per sempre se “Era megghije Selvagge o Maiellare?”(*). Non ci siamo riusciti, impossibile capire se il voto del tifoso settantenne valga più di quello espresso dal direttore di testata, se il parere di mio padre, valga più di quello di mio zio, suo fratello, oppure ancora, impossibile decidere se i compagni di Selvaggi, rispondono “Franco” e quelli di Maiellaro, asseriscono senza dubbio “Pietro”.
Alziamo le mani e lasciamo intonse le fazioni, granitiche le scuole di pensiero: Selvaggi serio, Maiellaro genio, il lucano campione vero, il foggiano a tratti inespresso. Nessuna soluzione ad un rebus che non ne vuole e non ne prevede, ma che lascia sullo stesso gradino del podio entrambi, con la ferma consapevolezza che a fare le classifiche, negli anni siano le emozioni suscitate e non solo il numero di volte in cui hai gonfiato la rete. Altrimenti sarebbe algebra e non questione di cuore.
Ah, Auguri Poeta…e grazie Franco, così, sennò, pare brutto!(**)
(*) e (**) – A scanso di equivoci, l’autore sottolinea come le espressioni dialettali, siano volute e ricercate…Non si sa mai.